“Finché c’è borghesia, c’è speranza”: potrebbe essere questo uno dei tanti messaggi che si evincono da Un borghese piccolo piccolo, lo spettacolo schietto e commovente riadattato sul grande capolavoro di Monicelli, in compagnia di un bravissimo Massimo Dapporto che sa dosare humor e malinconia. Fino al 20 gennaio al Teatro Franco Parenti
Come in ogni adattamento post-cinematografico occorre lasciarsi alle spalle ciò che già si conosce, in questo caso il romanzo di Cerami, il film di Monicelli e perfino l’interpretazione del benamato Sordi.
La regia di Fabrizio Coniglio ha però sorprendentemente fatto centro con una storia conosciuta da molti, ma raccontata con un’umanità differente, più immediata e sofferta. Benché fedele alla famosa pellicola uscita nelle sale nel 1977, nulla è davvero più attuale di questo fondo cieco della società contemporanea, nulla più odierno di questo “fascino discreto della borghesia” tra vecchio e nuovo millennio.
Massimo Dapporto è insuperabile e la sua interpretazione descrive la metamorfosi da contadino a borghese moderno, il self-made man prostituitosi nel Ministero dove ha lavorato per decenni. Con lui rivive il ruolo del compatito Giovanni Vivaldi, il marito che torna a casa stanco e che vuole un figlio più fortunato e migliore di sé, rappresentato sulle scene dal giovane Matteo Francomano.
Non esiste però evoluzione senza raccomandazione, anche per un figlio ragioniere che crede ancora in quei “saldi valori” di una Costituzione snobbata e di una Giustizia che ha smesso da troppo tempo di essere uguali per tutti.
Nell’infinita amarezza di questo testo vengono concessi dei momenti e delle pause dal dolore di una dolcezza e di un’incredibile intimità. In qualità di spettatori si deve saper guardare oltre il male e il difetto, oltre la semplice raccomandazione o l’ironico iter di iniziazione massonica del protagonista.
Oggi come ieri rimane il desiderio di saltare a piè pari regole e ostacoli, pur di ottenere favori di cui più si ha bisogno, quando tutto viene reso più dolce dalle note delle musiche originali di Nicola Piovani, quelle melodie che accompagnano le scene di una famiglia di vinti in una società di vincitori.
Non è solo Dapporto che convince il pubblico, con la sua voce bollente che calibra il detto e il celato, ma anche Susanna Marcomeni nei panni della casalinga disperata, della moglie sottratta alla luce del sole. Concordi a un ruolo ben interpretato compaiono il collega mangia-prosciutto, Roberto d’Alessandro, e il martire-omicida Federico Rubino.
Lo spazio scenico è essenziale ma non troppo, senza grandi pretese, riempito da oggetti di modernariato anni ‘70 e da una meta-teatralità che coinvolge a tutto tondo.
Spesso nei dialoghi vengono scalfiti dei momenti che oscillano tra nigredo e albedo (per rimanere in tema di massoneria); una scacchiera di luoghi comuni ridicoli e un filo deprimenti e di dolori per le ingiustizie che si devono affrontare.
Quando il fato è l’unico a non accettare raccomandazioni, ci sono poche scuse per fare i conti con la propria vita, e allora questi spettacoli riescono benissimo e si sentono ancora le parole di Edgar Quinet quando timidamente diceva che “il popolo senza la borghesia è come la forza senza la luce”. E a essere bendato e sbendato a vicenda per “vedere la luce” non è solo il povero signor Giovanni Vivaldi, ma tutti noi, capaci di farci agnelli e tramutarci in arpie.
Una rappresentazione non leggera, che richiede tatto e attenzione. Nel complesso un tesoretto intellettuale che lascia riflettere non poco.