In un periodo in cui vanno in scena a Milano diversi testi di Giovanni Testori forse è proprio in Conversazione con la morte (in scena alle MTM) la chiave di volta per capire un personaggio complesso, che in questo testo anticipa tutto il suo lavoro e il suo percorso successivo, segnata da una fede peculiare
Un uomo molto malato, che esce dall’ospedale per calcare ancora, per l’ultima volta, le tavole di un palcoscenico, e dare voce alle sue parole. Lo accoglie “un momento magico di silenzio in una serata di miracolose coincidenze tra vita e arte”. Questo ricordo, consegnato da Andrée Ruth Shammah sulla chiusura dell’ultima ripresa dei Promessi sposi alla prova prima di quella che torna in questi giorni su quelle stesse assi, segue di quindici anni una immagine che pure sembra già farle eco. L’uomo segnato dal tempo che pure troneggia sulle assi della scena nella Sala Cavallerizza delle MTM.
E in effetti, la parola di Testori (già qui, già prima “monumentum”) è presaga di tutto quello che sarà. Ed è forse qui che si può riconoscere – a volerla necessariamente identificare in un punto – la chiave di volta delle apparenti contraddizioni testoriane. Del cupo presagio di morte, della leggerezza della danza con le ombre di un passato felice. Ed in effetti, il vecchio attore che si guarda indietro anticipa se stesso, guardando al suo passato, quello adulto, con malcelato fastidio. Al tempo in cui, innanzitutto, credeva che vita e teatro fossero due cose separate.
Gli occorreranno pochi anni per giungere alla coscienza – e portarla in scena – che vita e scena coincidono, che occorre essere uomini per essere attori, che una cosa insegna l’altra.
Per impararlo, gli occorrerà un incontro faccia a faccia, proprio a margine di una replica, una Conversazione con la morte. La propria, ma soprattutto quella della madre. In quel momento, sul limitare del mistero, che si può trovare il seme di quella conversione che segnerà il tragitto del Testori successivo.
Del resto, è forse proprio nell’istante dell’incontro con la morte, con l’intangibile, che si sperimenta il trascendente, che si cerca quell’unità assoluta che è l’anima. “Chi crede in me anche se è morto vivrà, e chiunque vive e crede in me non morirà in eterno”, recita il Vangelo di Giovanni, ed è a questo passaggio che sembra guardare il Giovanni Testori uomo di fede, che da qui in avanti prenderà il posto dell’accusatore del Cielo che aveva dato parole poetiche e violente – un esempio su tutti – a Marianna De Leyva, la Monaca di Monza portata sulla scena nel 1967.
Senza, tuttavia, mai perdere la carnalità, la realtà – che solo le parole fatte “scenica verità” garantiscono – con la quale il trascendente non trova nessuna contraddizione.
Tutti punti, questi, che si sintetizzeranno anche nel testo successivo, ma che qui cercano una propria prima forma, nella figura di Gaetano Callegaro, che appoggia le parole su una recitazione, pur se in crescendo, anche fin troppo priva di enfasi, demandata soprattutto ai gesti.
Un corpo d’anziano attore attorno a cui Mino Manni costruisce una regia estremamente asciutta, che trova picchi di efficacia – col procedere del testo, in alcuni, vincenti espedienti: su tutti, posto su un tavolo che è sentiero da percorrere con fatica, capezzale e terra, luogo di radici, il drappo bianco al centro della sala, che si fa sudario di una morte (due, in una), corpo abbandonato alla sua fine e insieme grembo, il luogo a cui tornare, a cui elevare un inno e intorno a cui Testori fonda, oltre a se stesso, la mistica del femminile come materno e oblativo che lo accompagnerà in seguito.
A rendere evocativa la messa in scena sono però soprattutto due elementi: da un lato, i tagli di luce di Fulvio Melli che disegnano la figura dell’attore utilizzando saggiamente lo spazio in tutte le sue dimensioni, permettendo un continuo dialogo con le ombre del tempo la “creazione” di porzioni di spazio scenico che si arricchiscono di significati, d’altro canto, e forse soprattutto, la scelta dello spazio scenico.
Un teatro scarnificato, di mattoni e calce viva (che non a caso, di nuovo, ricorda quello del teatro nella cui fondazione Testori è stato parte attiva), dove il gocciolio d’acqua incessante fa da colonna sonora (più ancora che una intelligente scelta delle musiche, dai canti ebraici fino a Cosa sono le nuvole) a quella che vuole essere ed è, scrive Manni, la suggestiva cornice di “un tempio sconsacrato, una sorta di chiesa benedetta e al tempo stesso maledetta”, consacrata forse proprio dalle parole di Testori per essere, il luogo di un umanissimo miracolo.
Quello della morte come madre che accoglie, segno di “pietà e carità”, culla di una fine che è piuttosto una nuova partenza. Così la tutte le molteplicità di Testori si fanno una, e nella morte sorge una nuova nascita.