Andar per fiere è sempre una deriva, si perdono il senso dello spazio e del tempo come in un labirinto da laboratorio. Il nostro Gioele Melandri, a zonzo per Bologna nei giorni di Arte Fiera, si è abbandonato a questa deriva, trovando ristoro e refrigerio tra le pagine di Andrea Bellini e le opere dell’ottima Arianna Zama. Tra ricordi, presenze e progetti a ruota libera.
Recentemente ho letto un libro che mi ha intrattenuto nel corso di una notte insonne. Il libro in questione è Storie dell’arte contemporanea di Andrea Bellini, una caustica raccolta di aneddoti – tutt’altro che caricaturali – su quella brava gente che compone la rispettabilissima società civile dedita alle Belle Arti. Un libro scritto bene, divertente, disilluso, senza paura alcuna di cadere in contraddizione o di far storcere il naso a qualcuno; un libro che vale la pena leggere se si fatica a dormire. All’interno del testo uno degli ultimi capitoli narra le vicende dell’autore alle prese con gli impresentabili custodi del museo di cui è direttore. Su uno di questi in particolare si focalizza la simpatia dello scrittore, un mezzo senzatetto con la barba brizzolata, sdentato e ubriacone ma che – per qualche strano scherzo del destino – possiede un inspiegabile talento per la pittura ed il disegno. Questo talento non passa certo inosservato al Grande Direttore, il quale offre la possibilità al sottoposto di organizzare una mostra dei propri disegni all’interno degli spazi gestiti dall’istituzione per cui entrambi lavorano.

illustrazioni di Roberto Cuoghi
Che Kaleb – questo è il nome dello strambo “guardiasala” – esista davvero, non è dato saperlo. Certo è però che i musei italiani pullulino di figure altrettanto sopraffine addette alla sorveglianza del nostro prezioso patrimonio culturale. Tra le centinaia di studenti un po’ imbambolati di Dams e accademie, si trovano anche molti pensionati, volontari del Servizio Civile, categorie protette e persone alle prese con i Servizi Socialmente Utili. Una categoria di grandi professionisti, insomma. Non si pensi però che io nutra qualche avversione verso gli “assistenti alla fruizione” – ora si chiamano così – che popolano i musei d’Italia. Sarebbe una posizione ipocrita, visto che io stesso ho fatto parte di questa squisita categoria, di questo insigne Gotha, di questa casta esclusiva di “osservatori degli osservatori”.

Come ho già detto non è dato sapere se Kaleb sia un personaggio inventato o meno – o comunque io non ho alcuna intenzione di proseguire nell’indagine che lo riguarda – ma certo è che la mia biografia personale non sia poi tanto diversa dalla sua. Anche io facevo quello che faceva Kaleb, ma non al museo d’arte contemporanea di Ginevra – non avrei mai avuto un curriculum sufficientemente rispettabile per un luogo tanto importante – ma al museo Civico Luigi Varoli di Cotignola (RA), piccola città che è da sempre il mio esilio dorato, la mia terra, le mie radici ma anche – e soprattutto – la mia più grande maledizione. Al museo Varoli aprivo le porte, spegnevo l’allarme, accendevo le luci e dicevo “buon pomeriggio” a chi ne varcava la soglia, poi alle 18:30 – da bravo custode – salutavo cordialmente i visitatori uscenti (sempre che qualcuno fosse venuto a farmi visita), spegnevo le luci, inserivo l’allarme e chiudevo porta. In occasione dei vernissage invece le mie mansioni si facevano più divertenti e concitate: pulivo frigoriferi in cui rinfrescare il vino, attaccavo chiodi alle pareti, stuccavo i buchi nei muri e verniciavo plinti, sempre circondato dai molti artisti che venivano invitati alle affollate collettive che si tenevano al museo in quegli anni.

I custodi del Museo Varoli erano quattro e tra loro c’era anche un’amica che conoscevo dalle elementari e con cui frequentavo anche la stessa scuola di ballo e un corso pomeridiano di educazione artistica, sempre a Cotignola. Siamo cresciuti assieme, infestati dagli stessi fantasmi e con gli occhi saziati da suggestioni molto simili. Con Arianna Zama – questo il suo nome – abbiamo trascorso interi pomeriggi passando in rassegna tutto quello che veniva appeso alle pareti del museo, abbiamo allenato assieme il nostro sguardo, scambiandoci segreti e scoperte. Arianna è una delle compagne più fedeli del mio personale viaggio, anche se molto diversa da me – più composta, educata e silenziosa del sottoscritto – è sempre stata squisitamente complementare a quelle che sono state le mie fragilità personali e professionali. Poi siamo cresciuti e abbiamo iniziato a curare insieme i primissimi progetti artistici con grande – ed un po’ infantile – entusiasmo. Abbiamo anche vissuto nella stessa casa per un periodo, a Bologna. Arianna voleva fare l’artista ed io ero certo sarebbe riuscita nel suo intento, avevo grande fiducia in lei e nella sua sensibilità. Da Arianna ho acquistato i primi lavori della mia “collezione” quando avevo appena diciotto anni, poi ne ho comprati altri che ho regalato a due sorelle d’anima che mi sono scelto con cura e che hanno apprezzato il mio regalo, così come il lavoro della nostra comune amica. Con Arianna ultimamente ci si vede poco – siamo entrambi due giovani molto impegnati – ma ci osserviamo ancora con fraterna benevolenza.

L’ultima volta che ho visto la mia amica è stato durante la preview VIP di Artefiera, trascorsa ormai da alcune settimane. Quel giorno indossavo un make-up dorato, una camicia a righe gialle larghissima, degli stivaletti con tacchi troppo alti per la mia già sufficientemente elevata statura e un nuovo drastico taglio di capelli: una tonsura come quella dei frati francescani, realizzata dal sottoscritto come personale contributo per Sante, progetto multidisciplinare di Cuoghi Corsello a cui ero stato invitato a partecipare come più mi aggradasse. Arianna, vestita invece di nero e con i capelli già brizzolati in perfetto ordine, mi accompagna senza fretta allo stand della galleria Fuocherello per cui espone un nutrito corpus di lavori mentre io insceno il mio solito teatrino, salutando amici e colleghi e spiegando ai più curiosi le ragioni del mio nuovo hairstyle. Arianna è paziente e alla fine, dopo una discreta quantità di distrazioni, riesco a vedere i suoi lavori con la dovuta attenzione.

La mia amica ha gestito molto bene lo spazio che condivide con un altro pittore romagnolo, Jacopo Casadei, esponendo tanti lavori di formato ridotto che sintetizzano un intero anno di scoperte tra le sue paludi interiori, tra le sue nebbie gentili, un anno di chiacchierate con i suoi amici mostri, fatine, streghe e folletti che spingono per manifestarsi e farsi ritrarre. Arianna ha poi fatto una cosa commuovente: ha ricalcato con folle determinazione la carta da parati della camera dove lavora e ne ha tappezzato una parete dello stand. La ho trovata una soluzione molto onesta, una scenografia minima del luogo in cui i suoi lavori si sono manifestati empiricamente, una soluzione che non modifica drasticamente lo spazio espositivo, ma lo riscrive dolcemente, facendomi riposare gli occhi dallo shock causato dal bianco accecante delle pareti della fiera bolognese.

Sono tornato altre due volte a vedere i lavori di Arianna perché in quel turbinio di pubbliche relazioni erano diventati il mio porto franco, la mia àncora. Alcuni giorni dopo, una collezionista che possiede alcuni dipinti di Arianna mi fa sapere con grande orgoglio che la “nostra artista” ha ottenuto una menzione speciale per i lavori presentati in fiera. Io sorrido alla ragazza e mi compiaccio con lei del riconoscimento di Arianna, riconoscimento di cui però – personalmente – non avevo affatto bisogno.