Esce il film dello svedese Roy Andersson, filosofico e surreale, che ha vinto a sorpresa l’ultima Mostra del cinema: 39 quadri mirabili, profondi, da festival
La sala di un museo di scienze naturali, una donna immobile e carica di borse, un uomo curioso che si guarda intorno ammirando uccelli impagliati e scheletri di dinosauri. E subito dopo un cartello minaccioso, “Tre incontri con la morte”, che in realtà ci annuncia l’arrivo di tre sketch in cui i personaggi sono alle prese col passo decisivo dell’esistenza, l’inevitabile conclusione della nostra avventura terrena.
Così inizia Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza, il film di Roy Andersson che ha vinto il Leone d’Oro all’ultima Mostra del cinema di Venezia. E i successivi 100 minuti proseguono nella stessa direzione, senza smentire le aspettative fin qui create.
Ecco così comparire Sam e Jonathan, ambulanti specializzati in denti da vampiro e maschere di carnevale, costantemente impegnati a “vendere divertimento” ma incapaci di ottenere il benché minimo risultato, con le loro facce depresse in bilico fra catatonia e disperazione.
In loro compagnia andremo alla scoperta delle miserie umane e della fragilità del nostro destino, attraverso scenette di vita quotidiana contemporanea ed escursioni nel tragico passato coloniale dell’Europa, intollerabili esperimenti di vivisezione e storiche battaglie, quella di Poltava, in particolare, voluta nel 1709 da Carlo XII e conclusasi con un sanguinoso disastro che avrebbe segnato il definitivo declino delle ambizioni imperiali della Svezia.
Il film si sviluppa in 39 quadri, costruiti (mirabilmente, va detto, con un magnifico gusto dell’inquadratura) come tableaux vivant dove gli attori si muovono mentre la macchina da presa rimane immobile. E si procede a zigzag, su e giù per i secoli, alla ricerca del senso delle cose e della nostra storia, ma partendo dalla granitica convinzione che il senso non lo troveremo mai, per la buona ragione che non esiste.
Ma qual è il risultato di queste scelte d’autore? Un film di sterminate ambizioni e dagli esiti assai più limitati, che intende approcciare temi pesanti, di considerevole profondità, ma che finisce poi con l’affastellare banalità assortite sull’amore e sulla morte, sulla guerra e la pace, sulla storia dei singoli individui e delle nazioni. Il tutto senza far ridere, mai, ma senza nemmeno offrire spunti autentici di inedita riflessione.
Il regista, Roy Andersson, da noi un emerito sconosciuto, non può essere considerato un giovane autore a cui accostarsi con il gusto della scoperta. Svedese, ha già felicemente superato i settant’anni e non è nemmeno un esordiente. Nella sua filmografia ci sono cinque lungometraggi molto premiati e pochissimo visti. Il primo è arrivato nelle sale nel 1970, l’ultimo è sbarcato a Venezia nel 2014 e ha conquistato a sorpresa il primo premio.
In mezzo ci sono stati un gran numero di cortometraggi, spot pubblicitari e documentari, e i primi due episodi di The Living Trilogy, ambizioso progetto iniziato nel 2000 e interamente dedicato a una complessa riflessione sulla condizione umana che mescola in parti uguali filosofia e surrealismo. Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza è il terzo episodio, ma già con il secondo Andersson aveva vinto il premio della Giuria al festival di Cannes.
Una constatazione giunge a questo punto inevitabile: ai giurati dei maggiori festival europei il cinema targato Andersson piace, e tanto. Al pubblico evidentemente molto meno. E anche questa volta è facile pronosticare che la massa degli spettatori si terrà a debita distanza.
In effetti, Un piccione seduto su un ramo è quello che una volta si definiva, senza troppi giri di parole, un film da festival, adatto a essere assaporato soltanto dal pubblico ristretto dei cinefili duri e puri, magari anche un po’ masochisti, quelli mirabilmente messi alla gogna da Paolo Villaggio tanti anni fa in uno dei capolavori della storia del cinema italiano, Il secondo tragico Fantozzi (ricorderete certo la battuta sulla Corazzata Potemkin…)