Songwriter ma anche sommelier impegnato in attività di agrimarketing Marco Lippini con il suo nuovo disco non si allontana dalla sua natura agreste. Il titolo? “Home Forest”
Marco Lippini, cantautore pratese di origini emiliane e nostro collaboratore ha pubblicato il suo secondo album solista Home Forest, prodotto da Simone Fedi, con la collaborazione di Andrea Franchi alla batteria e Matteo Bonechi al piano.
Come sta andando?
Il disco al momento è uscito solo in formato digitale, gli ascolti sulle varie piattaforme ci sono e non mi lamento. Ma certo per la musica è un momento particolare: si chiede agli artisti di essere prolifici, di fare quantità, spesso a discapito della qualità. Il mercato è saturo, la competizione alta, e con lo streaming e il fenomeno della musica live le vendite si sono assottigliate.
Prima gli Arsella Boyz con Dino Storai, poi i Save The Polar Bears e I Fast Lights: puoi dire di avere un’esperienza consolidata di band. E ora? Home Forest come è nato?
Diciamo che con i Save the Polar Bears ho avuto una relazione più lunga, abbiamo fatto concerti in Italia e anche fuori. Arsella Boyz è un duo con Dino Storai, ci troviamo in studio a volte, facciamo una canzone ogni 5 anni ed è stato il mio produttore per il primo disco solista Acceptable Theories. Con i Fast Lights è durata poco, molto lavoro di studio, molto materiale che è rimasto negli hard disk, a parte un brano che si chiama Miami Joy. Per quanto riguarda Home Forest la questione è semplice; avevo del materiale grezzo, direi grossolano, e l’ho fatto ascoltare a Simone Fedi, e dopo un paio di mesi di lavoro con la sua produzione, nel suo studio sono uscite 10 canzoni.
I testi li scrivi tu? E perché sempre in inglese?
Sì li scrivo io e la scelta dell’inglese devo dire che è venuta naturale, potrebbe essere la voglia di raggiungere altri luoghi e paesi, la voglia di farsi ascoltare anche da altre culture, ma sto lavorando su brani in lingua nostrana, vediamo.
Nella tua biografia dici che hai cominciato a suonare a 14 anni. Quali suggestioni musicali ti hanno spinto a suonare?
La principale è stata una chitarra classica regalata dai miei genitori. Ho iniziato a suonare, poi è arrivata la scrittura. La musica per me è sempre stata un porta aperta su altri mondi sensoriali, mi ricordo il primo walkman, indimenticabile. Seduto nel sedile posteriore dell’auto, chiudevo gli occhi e mi ritrovavo altrove.
Il saggio dice che non bisogna mai smettere di avere dei maestri. Quali sono i tuoi?
Nella cultura mistica indiana si dice che bisogna onorarli i maestri. Io ne ho diversi nella musica per vari motivi e a vari livelli a cui va la mia massima stima. Lennon/McCartney li metto insieme, come un corpo unico per loro organicità, Woody Guthrie per il coraggio, David Byrne per la ricerca musicale, Julian Casablancas e Sufjan Stevens, per la contemporaneità e per il valore affettivo che essi hanno per me. Degli italiani metto Franco Battiato il cui lavoro secondo me sarà ancora più valorizzato negli anni a venire. Ne aggiungo un’altro per me di grande importanza, Paolo Benvegnù
Perché ti sei orientato sull’elettro rock?
Sai sono scelte casuali e naturali, che a volte vengono senza pensarci su, la musica funziona quando dà un’emozione e quindi suono e scrivo cose che mi emozionano positivamente, però non disdegno la musica folk, sto suonando molto l’ukulele ultimamente.
Home Forest, in che senso?
Vuole avere un significato metaforico. La casa come una foresta, insomma portare la natura dentro se stessi. Il brano Treelife, per altro, è dedicato a Julia Bitterfly Hill che si arrampicò a 50 metri di altezza per difendere una sequoia centenaria che una fabbrica di legname voleva abbattere.
Da buon tosco-emiliano ami la tavola e sei anche un esperto di vini. Come concili la tua attività vinicola con quella di songwriter?
Beh vino e musica vanno a braccetto, è un connubio perfetto. E li considero due lavori della stessa importanza, a volte complementari. Diciamo che vino e turismo in generale sono più redditizi economicamente al momento per me. Aggiungo che non mi piacciono le parole passatempo e hobby, le trovo pericolose.
Ottimista, pessimista, fatalista? Come hai affrontato la pandemia? Ti ha dato spunti sul piano creativo?
Beh ho suonato, scritto e letto abbastanza. Mi sono riappropriato del piacere della lettura e dell’astrazione in generale. Ho filtrato molto, parlo di arte in generale, e ho prediletto cose che mi interessavano veramente. Diciamo che vivo sempre di più il presente e per fare questo bisogna addestrarsi ogni giorno, è un lavoro continuo senza ferie.
Cosa pensi di fare da grande? O, se preferisci, quali progetti hai per il futuro?
Sto scrivendo altri brani, ho un sito con mia moglie di destinazioni turistiche sostenibili, ho un podcast che si chiama Jord che sta andando bene, con cui sto facendo un progetto sugli artisti dell’appennino, terra per me speciale. Sul cosa fare da grande ti potrei rispondere che l’auspicio principale è di amare quello che faccio.
Foto di copertina: David Pozzati