“Una donna” di Annie Ernaux si colloca all’intersezione fra famigliare e sociale, fra mito e storia. Un progetto di natura letteraria che cerca di raggiungere una verità attraverso le parole, me che aspira di restare al di sotto della letteratura.
Nel testo che introduce Écrire la vie, la raccolta della maggior parte dei suoi scritti, Annie Ernaux sottolinea con estrema lucidità che lo scopo della sua opera non è raccontare la sua vita, mettersi a nudo, ma raccontare la vita, la vita con tutti i suoi contenuti, che sono gli stessi per tutti, ma vengono esperiti da ognuno in maniera individuale: i corpi, l’educazione, l’appartenenza a una condizione sessuale, la traiettoria sociale, l’esistenza degli altri, la malattia, il dolore. Sono temi che si possono ritrovare facilmente in ogni libro di Ernaux e che vengono verbalizzati nel fragile interstizio fra personale e sociale, con l’obiettivo di raggiungere una qualche sorta di «verità» interpersonale che abbia valore preciso di indagine, testimonianza, ma anche di prassi politica. In un articolo uscito nel 1989 su «Nouvelles nouvelles», intitolato emblematicamente Littérature et politique, Ernaux individua il suo spazio d’azione fra l’esperienza della scrittura (considerata come una «maniera di dare») e l’ingiustizia del mondo: «mettere tutte le risorse dell’arte nel desiderio di dire e trasformare il mondo».
Nella sua prassi di scrittrice questo vuol dire posizionarsi in uno spazio fra la letteratura e la sociologia, fra il mito e la storia, attraverso una scrittura consapevole dei propri strumenti e in grado di riflettere su se stessa per problematizzare la visione del mondo che veicola. Il primo problema che Ernaux si trova ad affrontare, è quello – con le parole di Jean Genet – di scrivere nella lingua del nemico. Nata in una classe sociale popolare e operaia, Annie Ernaux si trova a dover raccontare quel mondo dal suo punto di vista privilegiato di transfuga di classe, vissuto con un senso di colpa che percorre sotterraneamente tutti i suoi libri e si trasforma spesso in vergogna (che è anche il titolo di un libro del 1997, La honte): vergogna di appartenere a quel mondo, ma anche vergogna di vergognarsi di quel mondo, vergogna di averlo tradito. La soluzione tentata da Ernaux è la costruzione di un affresco che rifugga sia il patetismo mitizzante e populista che guardi con condiscendenza o nostalgia a un mondo ormai scomparso («Questo sapere, trasmesso per secoli di madre in figlia, si ferma con me, che ne sono ormai l’archivista»), che la critica e la condanna veemente, creando una scrittura che oscilla costantemente fra la freddezza clinica e distaccata e la partecipazione commossa a una narrazione che vede l’autrice partecipe in prima persona. Un’auto-socio-biografia, come l’ha definita Ernaux stessa, che si muove, con un stile ellittico e frammentario, composto di brevi paragrafi ed elenchi, con una sintassi frequentemente nominale, fra la ricostruzione storica del passato (sociale e familiare) e la riflessione sul presente della scrittura che non si fa mai metadiscorsività autoreferenziale, ma è sempre riflessione chiarificatrice sulla scrittura, sulle motivazioni che la animano, sugli strumenti che la informano, sulle modalità che la muovono, sulle difficoltà, le contraddizioni e i dubbi che la complicano.
Ernaux è sempre consapevole che il modo in cui una determinata porzione di mondo è resa a livello stilistico è l’idea che di quel mondo si comunica, e la sua scrittura mette costantemente in scena questo processo di riflessione e di costruzione del senso. Così la ricostruzione della biografia della madre dopo la morte, in Una donna (L’orma 2018, trad. Lorenzo Flabbi), esattamente come ne Il posto, viene considerata dalla sua autrice né «una biografia, né un romanzo, naturalmente, forse qualcosa tra la letteratura, la sociologia e la storia. Era necessario che mia madre, nata tra i dominati di un ambiente dal quale è voluta uscire, diventasse storia perché io mi sentissi meno sola e fasulla nel mondo dominante delle parole e delle idee in cui, secondo i suoi desideri, sono entrata». Il racconto della vita della madre diventa un costante andirivieni fra ritratto storico-sociale, racconto autobiografico, ricostruzione biografica. La narrazione prende il via sull’annuncio, in toni assolutamente freddi, quasi da cronaca, della morte della madre, sulla quale viene subito posto l’accento, mentre l’io della scrittrice, comparendo per la prima volta in una proposizione subordinata relativa, si presenta in una posizione defilata. Il libro procede alternando il racconto della storia materna (la vita vera di una donna realmente esistita) alla ricostruzione di un ambiente sociale, della storia che avviene sullo sfondo, della condizione femminile e operaia nel corso del novecento, al rapporto intimo e privato fra madre e figlia e quello fra autrice e scrittura. La narrazione si muove, quindi, costantemente fra generalizzazione e individuazione, oscillando sul doppio binario del racconto singolativo, per la resa delle esperienze private, e del racconto iterativo utilizzato per dar conto di un modo sociale dell’agire umano. Le descrizioni geografiche sono molto frequenti con grande attenzione alle modificazioni urbane e alla conformazione dello spazio umano come riflessi della storia e delle gerarchie sociali. Allo stesso modo c’è grande attenzione alla dimensione del lavoro: costantemente si insiste sulle condizioni lavorative e sui mestieri delle persone che si incontrano nel corso nella narrazione, come a suggerire che il lavoro è una delle prime caratteristiche che definiscono l’identità di un individuo (aspetto ricorsivo nella letteratura, almeno da Pinocchio in poi). La vita della madre diventa così anche un caso di studio:
cerco di non considerare la violenza, gli eccessi di tenerezza, i rimproveri di mia madre soltanto come tratti peculiari del suo carattere, ma di situarli all’interno della sua storia e della sua condizione sociale. Questa maniera di scrivere, che mi pare andare nella direzione della verità, mi aiuta a uscire dalla solitudine e dall’oscurità del ricordo individuale tramite la scoperta di un significato più generale.
In queste righe emerge, implicitamente, un rifiuto e una presa di distanza dalla psicanalisi e dallo psicologismo (comune in una larga fetta di letteratura francese contemporanea molto attenta a un tipo di scrittura sociologica, che deve molto a Bourdieu, basti pensare a Ritorno a Reims di Didier Eribon): se per i personaggi di Ernaux si potrà parlare di inconscio si dovrà farlo intendendo un inconscio sociale e non freudiano. Nessuna indagine e descrizione psicologica si trova in queste pagine, semmai un’analisi attenta di comportamenti e linguaggi che vengono sempre situati in un preciso contesto sociale. La descrizione della madre si sofferma più spesso sul suo modo di vestire che sulla sua apparenza fisica e quando lo fa è sempre per sottolineare la sua condizione di lavoratrice indefessa mossa dal desiderio di elevazione sociale. Anche il linguaggio utilizzato dalla madre, se da un lato è l’emblema di un rapporto intimo e familiare, dall’altro è il mezzo attraverso il quale Ernaux ricostruisce la condizione femminile negli ambienti popolari francesi del dopoguerra, di cui indaga il difficile rapporto con l’alcol, le relazioni di coppia, il matrimonio, le condizioni di lavoro. Non a caso la madre è sempre restituita per piccole scenette dinamiche: ogni situazione mette in luce un aspetto del suo carattere e dei suoi comportamenti, di cui Ernaux non manca di sottolineare la durezza, la violenza («mi picchiava spesso»), la difficoltà del rapportarsi con la figlia che negli anni si trasformerà in uno scontro di classe: «In certi momenti aveva in sua figlia, di fronte a lei, un nemico di classe». Il racconto della prima parte della vecchiaia della madre, infatti, sottolinea costantemente il senso di inadeguatezza di questa di fronte al mondo di cui fa ormai parte la figlia:
chiedeva senza sosta qualche faccenda da svolgere […] e, scherzando ma non troppo, «dovrò pur guadagnarmi vitto e alloggio!». […] Mi ci è voluto molto tempo per comprendere che mia madre provava proprio a casa mia quello stesso disagio che io, da adolescente, sentivo negli «ambienti meglio di noi» […]. E che, fingendo di considerarsi alla stregua di un’impiegata, trasformava istintivamente la dominazione culturale, reale, di noi che leggevamo Le Monde o ascoltavamo Bach, in una dominazione economica, immaginaria, da padrone e operaio: una maniera di ribellarsi.
La penna di Ernaux, con profondo senso di colpa, si sofferma anche sulla propria condizione di privilegiata, sul fatto che la stessa possibilità di scrivere un libro su sua madre – di averne il tempo e i mezzi – è la prova concreta del loro dislivello di classe, del suo passaggio da dominata a dominante: «Ero certa del suo amore e di questa ingiustizia: vendeva patate e latte da mattina a sera per permettermi di stare seduta in un’aula universitaria a sentir parlare di Platone».
Ma la grandezza della scrittura di Annie Ernaux sta nel non fare di Una donna semplicemente un libro di analisi sociologica, ma anche una narrazione sentita sulla sofferenza, sulla morte, sulla perdita e sulla memoria che ripercorre la difficoltà della scrittrice di affrontare il lutto nonché il dolore e il senso di inadeguatezza di fronte alla madre malata di Alzheimer (su cui Ernaux tornerà in Je ne suis pas sortie de ma nuit, testo diaristico dedicato interamente al periodo di malattia materna). Ed è in questa intersezione fra dolore privato e ricostruzione storica che si situa il senso della scrittura di Ernaux, che proprio in questo interstizio si trova a dover affrontare le contraddizioni della scrittura e le contraddizioni reali che costellano la vita di ogni uomo, attraverso l’elaborazione di una forma che si muove continuamente fra distanza oggettivante e partecipazioni empatica: «C’è chi dice che la contraddizione non si può pensare», sono le parole di Hegel citate in esergo, «ma essa nel dolore del vivente è piuttosto una esistenza reale».