Omaggio a Edgar Allan Poe, tra l’energica vitalità di Ferdinando Bruni e le musiche di Teho Teardo: paura, ironia e tributo in scena all’Elfo
Una scenografia simbolica è tanto più azzeccata quanti più significati riesce a farsi attribuire dallo spettatore. In questo senso non si può che lodare la performance del velo semi-trasparente che avvolge la postazione del tonante Ferdinando Bruni in Una serie di stravaganti vicende: tale velo è il coprotagonista ideale di Bruni in quanto riesce a incarnare tutti i ruoli assegnatigli dalla fantasia degli spettatori. Se ogni persona presente nella Sala Fassbinder dell’Elfo Puccini – che ospita 210 posti – gli affidasse cinque diverse parti, il velo semi-trasparente in una serata arriverebbe a incarnare ben 1050 ruoli. Una prova di trasformismo da far invidia a Peter Sellers e Alec Guinness!
Quel velo può essere il cantuccio di una bettola in cui l’Edgar Allan Poe impersonato da Bruni si è confinato nel corso di una sbronza ispirata ma sconfortante, consapevole di essere attorniato da svariati (im)possibili interlocutori con i quali però non è in grado di spartire quelle idee viscerali e di incerta provenienza che affollano la sua mente.
Annaspando, Poe riesce a trattenere solo poche scaglie di pensiero, le quali si traducono in una poesia ritmata che Bruni – ricorrendo a tratti all’inglese dello scrittore di Boston – fa giungere all’orecchio dello spettatore ulteriormente frammentata. Qualche segmento di parola rimane infine intrappolato sul famoso velo semi-trasparente, usato come supporto per le proiezioni orchestrate da Bruni e da Francesco Frongia; in tal modo il velo diventa anche una carta moschicida, un retino per catturare quelle spettrali falene che sono i versi di Poe, animate da un implacabile delirium tremens ben rappresentato sia dalle proiezioni che dalle musiche di Teho Teardo, le quali scuotono lo spettatore con l’aiuto dell’energico sound design di Giuseppe Marzoli.
Molto banalmente, il velo potrebbe anche essere investito dell’ingrato compito di rappresentare la ribollente e inavvicinabile interiorità di Poe, cassa di risonanza di quarant’anni di tragedie (1809-1849). Ma è anche il lenzuolo protettivo che egli utilizza per schermarsi da quegli incubi troppo vividi per essere guardati direttamente in faccia. È una placenta irrequieta al di là della quale Poe riesce ad affacciarsi solo per un attimo, prima di essere costretto a una precipitosa ritirata.
Quel velo è anche un teatro nel teatro. È il teatro privatissimo di Poe, monopolizzato dall’esercitatissima vocalità di Ferdinando Bruni che concorre – assieme alla partitura di Teho Teardo – alla costruzione di uno spettacolo che potrebbe stimolare la retorica di un critico di musica contemporanea ancor più di quella di un critico teatrale. Un errore di sincronizzazione tra interpretazione e registrazione capitato durante la seconda replica dello spettacolo ha permesso di apprezzare ancor di più l’interdipendenza tra la componente recitativa e quella musicale: Bruni, costretto a ripartire dall’inizio di questo omaggio a Poe, ha mostrato la sua capacità di appropriarsi di volta in volta di un ruolo “cantato”, concedendosi varianti significative pur restando ligio a una colonna studiata al millimetro e frantumata in innumerevoli particelle così come le immagini, le note e le parole rotte in mille pezzi che scivolano sul velo semi-trasparente con vorticosi ritmi di ricambio.
(foto di Laila Pozzo)