Abbiamo incontrato Antonella Lattanzi e abbiamo parlato del suo ultimo romanzo, “Una storia nera”
La sera del 7 agosto 2012, Carla Romano e Vito Semeraro si riuniscono, a due anni dalla loro separazione, per festeggiare il terzo compleanno della piccola Mara insieme agli altri due figli, ormai giovani adulti, Nicola e Rosa. Vito era stato un marito geloso, violento ed ossessivo, ma un padre amorevole. Carla, una donna dai modi gentili e indifesi, cerca di andare avanti con la sua vita, nel tentativo di proteggere se stessa e i figli.
Quella notte accade qualcosa di irrimediabile, che cambierà il destino di tutti i nostri personaggi.
Vito viene trovato, qualche giorno dopo, morto in una discarica a cielo aperto nelle periferie di Roma: ad essere sospettate di omicidio sono la ex moglie Carla Romano e l’amante di Vito Milena Spataro.
Antonella Lattanzi ci consegna questa volta un romanzo dalle tinte fosche e dai contorni noir, che ti avvinghia gelosamente con la sua sintassi franta e nervosa e con un ritmo sfrenato ti possiede fino all’ultima pagina.
Una storia nera è un romanzo ruvido, corposo, lontano da una qualsiasi vellutata morbidezza, che si inebria in un vortice di violenza attraverso una scrittura carnosa, sensuale, che si nutre a sua volta di immagini forti, ai limiti del nauseabondo, che sconquassano e turbano per lasciarti spiazzato e lacero come se le botte le avessi prese tu.
I gabbiani mangiavano, il corpo gonfio di cibo e molle di grasso, le piume sporche. Riducevano in brandelli, strappavano, sfilacciavano…. di colpo i gabbiani presero a beccarsi l’un l’altro, a sangue, combattendo e lanciando urla per il dominio sulla preda. Mentre combattevano feriti, sanguinanti, continuavano a mangiare.
Come insegna Tolstoj, lo scenario ideale per una storia di infelicità non poteva che essere una famiglia: quadro dove le forze del Bene e del Male non possono dispiegarsi epiche, bensì soltanto strisciare sotto la superficie subdole e feroci, talvolta invisibili. Non esiste alcuna linea netta che divida la luce e l’ombra dei nostri personaggi, tutto si svolge secondo una screziata scala di grigi, che fa di questo romanzo un pozzo di pulsioni consce ed inconsce, uno specchio della complessità dell’animo umano. Perché l’autrice non ci racconta soltanto una storia di violenza domestica, ma racconta tutti gli strati che precedono la violenza, tutti gli strati che si depositano sulla violenza, andando ad innescare un circolo vizioso e pericoloso di rabbia su rabbia, di gelosia su gelosia, di ossessione su ossessione.
A metà del romanzo, veniamo a sapere chi è l’assassino e quale il movente. La narrazione potrebbe apparentemente interrompersi qui, invece è proprio da questo punto che, credo, cominci l’indagine vera e propria, quella che va a scavare in modo morboso e chirurgico nelle dinamiche malsane di una famiglia, per trovarvi l’indicibile che non può essere nemmeno descritto, ma solo suggerito.
I personaggi di Una storia nera vivono di equilibri fragilissimi, attraversandoli come funamboli, sempre sul punto di precipitare.
È il caso di Carla che, nonostante le botte subite e le minacce del marito, continua a nutrire verso il suo aguzzino un attaccamento inspiegabile, impossibile da recidere in modo netto. E’ la stessa Carla che, a due anni dal divorzio, attira in casa propria l’ex marito, conscia-inconscia della pericolosità di quel gesto.
Il momento più doloroso arriva per il lettore proprio nelle ultimissime pagine, quando dopo aver pianto con Carla, sofferto per Carla, si conferma una scomoda verità: non esiste un Vito Semeraro violento senza una Carla Romano complice, omertosa, remissiva, eternamente bisognosa di un uomo alfa che la protegga, eternamente innamorata di un uomo incapace di amore, eternamente bambina. La delicatezza infantile di Carla è tratteggiata dall’autrice nella sua esile figura, nel suo sguardo impaurito, nei suoi occhi grandi ed azzurri.
Carla dormiva con Mara, stretta a sua figlia nel letto matrimoniale, e a vederle così, nella penombra, quasi nel buio, non avresti capito chi era la madre e chi la figlia
Nel romanzo della Lattanzi, l’amore si traduce quasi sempre in possesso: amare vuol dire possedere, ed essere amati vuol dire essere posseduti. E’ una verità intima che appartiene a molti dei personaggi, ma l’unico che riesca a pronunciarla, per lo meno tra sé e sé, è Milena, l’amante.
Perché Vito picchiava Carla? Perché non picchiava lei? Perché non mi amava
È sempre in quest’ottica di possesso che si delinea il legame tra i fratelli, Rosa e Nicola. Sono le sensazioni del caldo e del freddo a descrivere il loro rapporto, che talvolta si fa caldo ed appassionato, ai limiti dell’incesto, talvolta gelido di incomprensioni e gelosie. Ed è in questo alternarsi tra caldo e freddo che vediamo replicarsi le dinamiche malate tra Vito e la sorella Mimma, dove l’affetto fraterno ha in sé qualcosa di osceno.
Nicola la prese tra le braccia. Lei gli poggiò la testa sulla spalla. “Oh, come sei caldo” disse. Lui la stringeva e l’accarezzava e il cuore di entrambi batteva così forte, “Tu sei calda, Rosa, tu sei calda”
e furono così vicini, vicinissimi, una bocca così vicina all’altra, gli occhi, e lui era un uomo, e lei era una donna, non una donna, un uomo, la sua, come sei bella, il suo…
In questo intrecciarsi di affetti morbosi e malsani, l’unico che si salvi sembra essere quello di Manuel Bocci per Carla Romano: un amore delicato, mai ostentato, vigoroso nella sua presenza costante, nella sua attesa paziente, umano quando si sottrae a dinamiche pericolose, ma sempre vivo, seppur nel dolore e nel sapore del tradimento.
Infine, Mara, la piccola Mara di appena tre anni, unica zona luminosa in questa storia nera.
Mara è nel suo candore apparentemente immune al marcio che la circonda, apparentemente salva da quel replicarsi di meccanismi famigliari: eppure, come avvertiamo nelle ultime righe, il suo accecante candore è destinato ad assorbire le colpe degli altri per espiarle, forse, un domani attraverso un personale riscatto.
Linda Pedraglio: Credo che lo sguardo e la sensibilità dello scrittore abbiano la rara dote di illuminare la complessità dell’essere umano, le sue zone d’ombra. Per questo fatico a ridurre il suo romanzo ad un libro di denuncia sociale contro il femminicidio. Lei come lo definirebbe? Pensa che il compito dello scrittore sia raccontare o denunciare?
Antonella Lattanzi: Anche io fatico a dargli una definizione. Cerco di scrivere ciò che mi piacerebbe leggere, e mi piace leggere romanzi che sfuggano alle definizioni. Come definiremmo un romanzo di Sciascia? Come definiremmo un romanzo di Roth? Ma anche, come definiremmo un romanzo di Stephen King?
Io non riesco a definire il mio romanzo – non mi sto assolutamente paragonando a questi grandi maestri, sto soltanto facendo degli esempi per farmi capire – né mentre lo scrivevo ho pensato a una definizione. Volevo raccontare una storia, e questo ho fatto, nel bene e nel male, senza alcuna etichetta. Secondo me uno scrittore è colui che pone delle domande a cui il lettore, se vuole, può dare delle risposte.
Ho trovato che la sua parola fosse corposa, sensuale, molto sospinta verso il basso. E’ stata una scelta o il naturale scaturire da un tema così “fisico”, come può essere la violenza?
È stato abbastanza naturale. Penso che ogni libro, ma a volte ogni capitolo, ogni paragrafo, abbia bisogno della sua lingua, del suo stile. Una storia nera è profondamente diverso dagli altri miei romanzi per quanto riguarda lo stile e la lingua, anche se credo che sia riconoscibile una voce. Ho iniziato a scrivere questo romanzo con un diktat in testa: doveva essere il più possibile asciutto, e doveva rendere tramite la scrittura ciò che raccontava tramite i personaggi, tramite la trama. La prima parte e la seconda, poi, sono molto diverse come stile. Perché la prima richiedeva un linguaggio più pastoso, pieno di nero, la seconda doveva essere imprendibile.
I suoi personaggi non sono buoni, né cattivi: sembrano tutti irrimediabilmente malati, tutti complici di un male comune, tutti ingranaggi di un meccanismo difficile da disinnescare. Nel suo romanzo c’è davvero una vittima? C’è davvero un carnefice?
Per me sono tutti vittime e tutti carnefici. Alcuni molto di più, naturalmente, alcuni molto meno, o loro malgrado. Mi interessava molto che non ci fosse una differenza definita e manichea tra buoni e cattivi, giusto e sbagliato, ma che appunto ogni personaggio fosse al vaglio, sotto il giudizio del lettore: ha agito bene? ha agito male? è buono? è cattivo? è giusto o sbagliato quello che ha fatto? Volevo che fosse il lettore a decidere, come si fa nella vita vera. Mi interessava che ogni personaggio avesse le sue ragioni, o esondasse dalla sua routine per compiere un gesto a lui estraneo e che il lettore lo vedesse così, nudo, nel momento in cui è più vulnerabile.
Sembra che a volte sia in primis lo spazio a raccontare le vicende e la psicologia dei personaggi. Quanto lo spazio romanzesco influisce nella costruzione dei personaggi?
Per me il racconto dei luoghi fa sempre parte del racconto tout-court. I luoghi di Una storia nera sono espressione dei sentimenti dei protagonisti, dell’atmosfera del racconto; il caldo asfittico della prima parte e i gabbiani famelici, per esempio, raccontano la scomparsa di Vito e l’ossessiva ricerca di quest’uomo. Invece di raccontare i pensieri dei personaggi, ho scelto di raccontarne impulsi ed emozioni attraverso i luoghi e gli spazi, come se ognuno di noi potesse influenzare attivamente il mondo esterno solo con i propri pensieri.
La storia non è raccontata attraverso un unico punto di vista, bensì attraverso un incessante alternarsi di punti di vista, da cui solo Mara rimane esclusa. Il lettore rimane talvolta spaesato, ma al contempo diventa un costruttore di senso. Perché questa scelta?
Perché non c’è una sola verità da raccontare, ma ce ne sono almeno tante quante sono i personaggi. Perché volevo che il lettore potesse avere in mano un puzzle da ricostruire, dentro cui entrare, se vuole, e da scardinare anche, quando ha opinioni diverse da quelle dei personaggi. E perché penso che ognuno dei personaggi possieda una parte di verità ma nessuno, neanche il narratore, la possegga tutta.
Perché ha scelto di raccontare questa storia?
Mi interessa sempre raccontare storie che non siano autobiografiche, mi interessa sempre studiare mondi e personaggi che non conosco. Da tanti anni seguo i casi di cronaca e, per esempio, Un giorno in pretura o Storie maledette, perché ci raccontano, attraverso l’evento cruento, mondi e persone inconoscibili. Ho studiato tantissimi casi di cronaca e tantissimi processi, e poi ho fatto tabula rasa e ho inventato una storia, perché credo che l’invenzione narrativa – in ogni sua forma – possa contenere tutte le storie vere.