La narrativa al tempo di Obama, il grande romanzo americano e la scelta, discutibile, di Yanagihara di affidarsi, davanti alla complessità del mondo, a una sorta di “primal scream”. All’esagerazione, all’amplificazione del “male assoluto”, al bianco e nero, al melodramma sopra le righe.
Ci promettono, di anno in anno, il Grande Romanzo Americano. E ci arriva quasi sempre, puntuale e un po’ frustrante, il voluminoso romanzo americano. Scrive Percival Everett: «L’idea americana di valore si associa spesso al concetto di peso, dimensione, lunghezza. Capite anche voi dove si rischia di andare a parare. A noi americani piace avere qualcosa di concreto in cambio dei nostri dollari: un romanzo Suv e non un’utilitaria».
È il caso dell’interessante e spesso coinvolgente, ma ridondante e lontano dal capo d’opera Una vita come tante (Sellerio, traduzione ottima e sospetto eroica di Luca Briasco). Lo ha scritto in diciotto mesi Hanya Yanagihara, giornalista americana di stile e viaggi, padre oncologo di origine hawaiiana e madre coreana, alla sua opera seconda dopo The people in the trees del 2013, storia di un virologo finito in carcere con l’accusa di molestie ai minori. Un buon precedente, vedremo più avanti perché, di questo A little life (un po’ di vita, un po’ di normalità a cui aspira il protagonista Jude St. Francis).
Uscito nel 2015 in patria, il romanzo di Yanagihara è diventato un caso editoriale e di costume: 300mila copie vendute negli Stati Uniti e un’accoglienza critica entusiasta, la vittoria al Kirkus Prize (è stato finalista anche al Booker Prize e al National Book Award), una folta comunità social (i Lispenards, dalla prima casa dei protagonisti in Lispenard Street, l’appartamento più brutto del mondo) e l’annuncio che, con ogni probabilità, verrà trasposto in una serie televisiva.
Ecco, le serie tv. La mole di molti romanzi americani attuali (che senso ha superare le mille pagine, come si faceva spesso nell’Ottocento? Allora il romanzo, anche fluviale, era l’unica narrazione possibile, oltre che un potente cannocchiale con cui vedere da vicino il mondo, entrare in stanze e ambienti altrimenti interdetti) si spiega, a non voler dare credito alla maliziosa ipotesi del romanzo Suv, come il tentativo di organizzare una saga che regga la concorrenza del piccolo schermo e magari proprio lì approdi. Inutile soffermarsi sulle serie come nuova frontiera della narrazione: gli apologeti e gli esegeti sono già legione.
Di una saga, Una vita come tante ha l’apparenza e l’impianto, se non la sostanza. Il romanzo accompagna lungo l’arco di trent’anni indefiniti (nelle oltre mille pagine non c’è una data o un qualunque cartello segnaletico che lo ancorino a questo o quel periodo), presumibilmente dagli anni ’90 ai nostri giorni, la vita di quattro amici, dal sodalizio iniziale in un’università del New England alla conquista di New York teatro di ogni possibile ambizione, fino all’età matura.
Un romanzo di gruppo (viene in mente appunto Il gruppo di Mary MacCarthy, che possedeva ben altro spessore, qui il gruppo di amici durante gli anni è quello di una sit-com anche sofisticata) che, poco prima della metà, vira bruscamente verso la storia d’amore e orrore, squilibrando la narrazione: un avvio da realismo d’ambiente, un seguito che viene da definire gotico. Amore gay ma non è tutto sommato rilevante, chi parla di romanzo gay sbaglia, fosse una storia d’amore etero non ci sarebbe differenza.
Partono universitari a vent’anni o poco più, i quattro amici. Willem Ragnarsson viene da una fattoria del Midwest e da una famiglia scandinava rigida e impermeabile a sentimenti diversi dal dovere. I suoi genitori hanno già perso due figli, Willem si prende cura del fratello minore disabile fisicamente e mentalmente: la vita grama in fattoria, con la sua economia materiale ed emotiva che rasenta l’autismo, fa venire in mente Stoner di John Williams, mentre il fratello disabile ricorda un film del 1993 di Lasse Hallstrom, Buon compleanno, Mr. Grape! (il disabile era il giovanissimo Leo DiCaprio che ottenne la prima nomination all’Oscar, il fratello maggiore e soccorrevole Johnny Depp, tenetelo a mente come modello subliminale di Willem). Vorrebbe fare l’attore Willem, che è bello buono e modesto e piace alle donne, ma si accontenta di fare il cameriere, chissà se un giorno sfonderà.
Vorrebbe fare il pittore JB, che sta per Jean-Baptiste Marion, figlio di immigrati haitiani cresciuto senza padre da una tribù (madre, zia e compagna, nonna) di donne iperprotettive, estroverso e sfrontato, caustico e polemico, a volte carogna, gay votato agli eccessi: ma ai primi passi si accontenta di fare il centralinista in una rivista d’arte.
Vorrebbe fare l’architetto Malcolm Irvine, il meno a fuoco e il più sfuggente dei quattro amici, quello sempre indeciso e educatamente frustrato, figlio cresciuto negli agi della buona borghesia nera dell’Upper East Side, un padre importante che è originario delle Grenadine. Per il momento si accontenta di fare il garzone di bottega in un prestigioso studio di architetti e di trafficare con planimetrie e rendering.
E poi c’è Jude, Jude St. Francis, il più talentuoso e schivo dei quattro, quello che riesce bene in ogni cosa (è eccellente allievo alla facoltà di legge, ma segue anche ardui seminari di matematica) e che oltre alla bravura negli studi possiede mille altre abilità, bravo cuoco e provetto giardiniere, persona meticolosa e ordinata. È anche bello Jude, l’autrice lo racconta più nelle sue ombre e in ciò che non deve essere esibito che nella sua bellezza, eppure si intuisce che è bello. Jude zoppica e ogni tanto ha crisi di dolore acuto che lo costringono, quando arrivano, a lasciarsi cadere a terra dovunque sia e a restarci per ore. Gli amici sono affettuosi e protettivi con lui, affascinati da lui: lo soccorrono durante gli attacchi, non lo lasciano solo, pendono dalle sue labbra. Ma non osano mai chiedergli chi sia, da dove venga, quale passato abbia. «Essere amico di Jude significava spesso non porsi le domande che ci si sarebbe dovuti porre, per paura delle risposte». Jude non rivela passato e segreti perché teme che gli amici non li reggerebbero, lui stesso fa fatica a convivere con i fantasmi che lo abitano.
L’amicizia, che sarà il collante del romanzo, è il sentimento dominante di tutta la prima parte (si scrive molto di amicizia in questi tempi, più del solito mi sembra: si pensi per esempio al più stringato e pudico, e di molto superiore, Le otto montagne di Paolo Cognetti). L’alleanza spesso reticente di quattro ragazzi («non tanto perché non vogliano parlarne, quanto perché a volte non sanno neanche dare un nome a ciò che provano») incerti sulle aspirazioni e i sentimenti, certi soltanto che c’è uno spazio da occupare e che loro lo occuperanno: più che un patto contro il mondo, un patto per prendersi il mondo tenendolo allo stesso tempo a distanza.
E il mondo infatti, in Una vita come tante, si presenta come fondale (come il “trasparente” che si usava nei film): tanti pranzi e cene nei ristorantini cool vietnamiti o giapponesi o francesi o italiani, tante feste e tanti vernissage, tante prime a teatro e tanti Thanksgiving. Ma neppure una data o un fatto, l’ho già detto: non l’assalto alle Twin Towers o Rudy Giuliani, ma neppure il grande blackout o il dissesto della metropoli al tempo di Ed Koch o altri accadimenti. La storia è fuori dalla porta, in questo romanzo, ma lo è anche l’umanità oltre lo small circle of friends: donne non ce ne sono o quasi (c’è l’assistente sociale Ana che avrà un ruolo decisivo per salvare Jude e offrirgli un futuro, ci sono mogli e madri e sorelle e partner occasionali spicciate in poche righe), famiglie poche (gli Irvine, anche loro sullo sfondo, e Harold e Julia, lui professore di diritto che ha perso un figlio e che deciderà di adottare il già adulto Jude al quale si è affezionato), nessun animale, gli unici che circolano sono pezzi di pesce crudo e tranciato ad arte nei sushi e nei sashimi.
Ci sono in compenso molti oggetti di pregio, simboli tangibili e, va da sé, di ottimo gusto del successo ottenuto. Come se fosse naturale e automatico, come una raccolta di punti premio o come uno scatto di anzianità, senza averlo conquistato affrontando traversie e un processo di crescita interiore. (Chi definisce Una vita come tante un romanzo dickensiano faccia il confronto, al netto degli episodi melò, con Grandi speranze: l’orfano Pip ottiene il tesoro, lo dissipa per avventatezza giovanile, impara sulla propria pelle che cosa significhi costruirsi un futuro, forgiarsi un destino). Così, cento o duecento pagine dopo gli avvii stentati e fervidi, senza quasi alcun passo intermedio, eccoli tutti e quattro over the top: Willem attore quasi da Oscar che gira film in mezzo mondo, Malcolm architetto di successo che quasi neanche Norman Foster, JB ritrattista acclamato in numerose personali (ritrae soltanto i suoi amici, quasi soltanto Willem e Jude) e Jude, dopo un passaggio in magistratura, avvocato societario spietato al servizio di industrie farmaceutiche e altri potentati. Tutti ben sistemati, tutti con case meravigliose e arredate con gusto, con seconde case in campagna, a Londra e Parigi. Con opere d’arte e mobili e oggetti di design da fare schiattare d’invidia gli unhappy many, e con tutti i loro bei mangiarini e gli ottimi cocktail e i tè freddi e le limonate a bordo piscina. Tra eguali di successo e tutti politically correct, anche Jude predatore fra altri animali da preda ma niente razzismo e niente discriminazioni. Il mondo attraverso la lente di una rivista patinata.
Arrivato al successo, adottato da un docente universitario che lo ama come un figlio, circondato da amici affettuosi, stimato tra i colleghi, Jude continua a pensare di essere un mostro, una persona spregevole, a scusarsi ogni volta che deve ricorrere all’aiuto di qualcuno (una lettrice si è presa la briga di contare gli “I’m sorry” che ricorrono nel romanzo: sono 215), a infliggersi con un rasoio tagli sempre più profondi alle braccia e alle gambe, a rifiutare ogni sostegno psichiatrico.
Nei numerosi flashback del romanzo (e va detto che Yanagihara è brava a dosare le rivelazioni, a tenere la briglia stretta sul plot) si scoprirà, con dosi di dolore ed empatia crescenti (che tuttavia si dimenticheranno presto, finito il libro, come si dimentica presto la botta violenta e il dolore repentino dell’urto in uno spigolo), che fin dalla più tenera età Jude è stato sottoposto ad abusi seriali rispetto ai quali le traversie della Justine di De Sade, grande testimonial delle disgrazie della virtù, sono una gioiosa escursione a Disneyland.
Dunque Jude è stato, in sequenza, e mi scuso per lo spoiler ma è necessario per dare la misura del “too much” che prende la mano all’autrice:
a) abbandonato accanto a un cassonetto della spazzatura quand’era neonato;
b) cresciuto in un convento di frati pedofili, che abusavano di lui e/o lo frustavano sulla schiena;
c) indotto a fuggire con il frate in apparenza più affettuoso, Fratello Luke, che oltre ad avere affettuosamente abusato di lui lo ha fatto prostituire (età del ragazzo fra i dodici e i quattordici anni) nei motel di mezza America, e gli ha insegnato a tagliuzzarsi come metodo per trovare sollievo;
d) alla morte del frate, suicida per non finire nelle mani dei poliziotti che gli danno la caccia, viene mandato in un orfanotrofio dove un branco di assistenti sociali sadici abusano di lui;
e) quando fugge dall’orfanotrofio, viene raccolto ai bordi di un’autostrada da uno psichiatra perverso che lo segrega in un seminterrato, abusa di lui e, quando lo libera, gli passa addosso con l’automobile.
Fine delle sciagure (ma questo non è un romanzo, è la storia universale dell’infamia), inizio del riscatto. L’assistente sociale Ana riesce a mandare Jude al college, da dove proseguirà per l’università, per poi avviarsi a una carriera legale come poche. Ma il riscatto non basta a fugare i fantasmi. «Non lo vediamo mai con nessuno, non sappiamo di che razza sia, non sappiamo niente di lui. Post-sessuale, post-razziale, post-identità, post-passato. Il post-uomo Jude, il Post-Uomo» dirà di lui, in un accesso di malignità, JB. Ha parlato quello giusto.
Jude non si confida, resiste ai (blandissimi, va bene la privacy ma nessun amico intimo farebbe così) tentativi di soccorso da parte della sua cerchia. Il sesso gli fa orrore e si capisce, e quando si metterà assieme a Willem (il quale, dopo decine di donne, scopre di essere innamorato di lui) i rapporti saranno quasi del tutto assenti. Jude si nasconde, va in giro a maniche lunghe anche nella canicola, non accetta di essere toccato (e il particolare mi fa venire in mente il sadico, e anche lui abusato in gioventù, Christian Grey di Cinquanta sfumature di grigio, personaggio uguale e contrario a Jude, per dire di che cosa si nutra l’immaginario di scrittori assurti a caso letterario), resiste alle cure, tenta di accedere alla normalità (condizione che riesce a trovare, in maniera miracolosa e semplicistica, nel lavoro al quale si dedica da workaholic lui così fragile, così come riesce a viaggiare per lavoro, lui quasi invalido, più di uno steward sulle rotte transoceaniche) ma ha costanti ricadute autolesionistiche. Fino all’unhappy end che non rivelo ma che si può agevolmente intuire.
Una conclusione scontata? Forse. Yanagihara è convinta che non ci si libera dal peso del passato, quando il passato è stato atroce. Noi lo abbiamo appreso, meglio e con maggiore misura umana della tragedia, da un piccolo capolavoro di Primo Levi, I sommersi e i salvati: chi è stato vittima proverà per tutta la vita un senso di colpa e una vergogna che i carnefici e i boia non riescono a provare. Tuttavia, l’unhappy end che fa sparire di scena quasi tutti gli amici sa tanto di opportunismo da scelta editoriale: una bella maniera strappacore per chiudere un romanzo che nelle ultime duecento pagine arrancava e girava spesso in tondo fra ripetizioni e stracchi progressi. E poi, meglio bruciare che spegnersi lentamente, come cantava Neil Young, soprattutto per un gruppo di amici che rischiavano di invecchiare senza essere diventati adulti.
Di recente Christian Lorentzon ha scritto per il New York un’acuta ricognizione del romanzo ai tempi di Obama (la trovate qui). Secondo lui, la parola d’ordine per i romanzieri, nel doppio mandato obamiano, è stata “autenticità”. Da ottenere abbattendo le barriere tra fiction e vita dell’autore (l’autofiction), rievocando con toni spesso nostalgici un passato recente ma non vissuto dall’autore (la retro novel, parente light del romanzo storico), descrivendo la scalata al successo con toni anche polemici o satirici (il romanzo meritocratico) o mettendo in primo piano dolori, abusi, sevizie e atrocità assortite pubbliche o private (la trauma novel).
Una vita come tante combina romanzo meritocratico e romanzo traumatico. Lo fa, ad onta dell’abilità di superficie, di una buona padronanza tecnica e di molte belle pagine (Yanagihara, per me, merita comunque la sufficienza) con due difetti intimi, che nessuna maestria tecnica può correggere e che a me paiono capitali: la pornografia dei sentimenti e il populismo letterario. Che è come dire la mancanza di sottigliezza, l’incapacità di dare conto del mondo nelle sue sfaccettature.
Davanti alla complessità del mondo e del nostro tempo, Yanagihara sceglie di affidarsi a una sorta di “primal scream”. All’esagerazione, all’amplificazione del “male assoluto”, al bianco e nero, al melodramma sopra le righe, come sopra le righe è la strage che fa piazza pulita dei protagonisti. Scordando, come insegnava T. S. Eliot, che il mondo finisce «not with a bang but a whimper». Non con un botto ma con un gemito, con un piagnucolìo.