“Un’educazione milanese”, il memoir di Alberto Rollo, è la storia di un’infanzia docile e di una giovinezza moderatamente ribelle e molto esposta ai venti del cambiamento in cui circolano le meraviglie di quegli anni; è storia della gioia di vivere messa in scacco dalle stragi ferroviarie e dai primi assassinii che preludono alla stagione terrorista; è storia di un’educazione operaia che evita gli arroccamenti nostalgici contro l’oggi.
«Ho vissuto sempre a Milano e non conosco un’altra città – né posto diverso da una città – in cui potrei vivere. Non si tratta di un vincolo meramente sentimentale. Credo abbia a che fare con una specie particolare di “educazione milanese”, di cui ho potuto, col tempo, riconoscere le origini di classe e la contraddittoria persistenza, rinvenendo i tratti di una diffusa forma di educazione sentimentale che va oltre i luoghi comuni del dialetto, dell’operosità e delle celebrazioni di un fantomatico genius loci. Nella fattispecie si tratta di un’ “educazione milanese operaia”. Non è infatti mai esistita una Milano sola – bisogna ripeterlo? Ma la particolare consistenza della composizione sociale della città è stata una ricchezza per quella che è continuata ad essere la Grande Milano. (…) Ho la sensazione che, traendo fuori dal disordine della memoria la mia famiglia e la mia infanzia, sortiscano anche immagini appena sbozzate di una città che ha sempre faticato a dirsi. E che di questa fatica ha fatto prima il suo successo, poi il suo impoverimento linguistico. Perché tardivamente ha trovato non parole bensì “comunicazione”».
Nel bellissimo Un’educazione milanese (Manni, pp. 320) Alberto Rollo, classe 1951, direttore editoriale della Feltrinelli, rilegge, attraverso la cronaca e il lessico famigliare, la sua storia di formazione e di “tradimento”. E rievoca una città che “saliva” e che oggi, sparite da tempo le industrie, continua a salire mutando pelle e vocazione (a Umberto Boccioni, alla sua Città che sale e alle sue Officine di Porta Romana – i luoghi che hanno ispirato i quadri visti “dal vero” in via Adige assieme al grande amico Marco, cercando di guardare le cose con i suoi occhi, di mettersi in “prospettiva Boccioni” – sono dedicate pagine emozionanti).
Una famiglia operaia significa un padre, salentino di origine e comunista senza tessera, svincolato dalla militanza, ma fervido nell’etica e nelle convinzioni, che comincia a lavorare a dodici anni come apprendista metalmeccanico, diventa capo-officina in viale Certosa e, quando in seguito all’annunciata riduzione di personale prende le parti degli operai, è il primo a essere cacciato, anche se i padroni che lo mettono alla porta gli danno una mano a creare la sua piccola officina metalmeccanica. Una famiglia operaia significa una madre che ha fatto la “piccinina” e ha cucito per la Bocca, una delle grandi sarte di Milano che ancora non conosceva gli stilisti, prima di aprire una sartoria propria che diventa finestra sul gran mondo. E che dopo il matrimonio rinuncia al lavoro per stare in casa, non senza qualche rimpianto, non senza qualche insofferenza (la richiesta sempre frustrata di una stanza in più e, quando osa mettere il rossetto, il marito che se ne va per qualche mese).
Un misto di rigori puritani e di grande fede nel progresso, di “stare al proprio posto” che non è rassegnazione e accontentarsi, ma, al contrario, dignità e certezza del proprio valore, una morale per alcuni versi vicina e segretamente affine a quella cattolica, e quindi niente sesso e nessun turpiloquio, e quindi i figli all’oratorio, ma niente messa per i genitori. Riassunta così potrebbe essere una storia grigia, forse conformista, ed è l’esatto contrario: il padre che all’insaputa di tutti partecipa ai funerali di Giangiacomo Feltrinelli, e il figlio lo apprenderà soltanto in seguito, vedendolo sfilare negli spezzoni documentari che Marco Bellocchio ha utilizzato per un suo film. Oppure che va ad assistere a una lezione del filosofo Enzo Paci in Statale, ci parla e se ne torna a casa pieno di ammirazione.
«Un’educazione milanese non poteva prescindere dalle officine. È stata certamente una garanzia contro la volgarità. Che cosa fosse non volgare in altri strati sociali non saprei dire. Di certo, per quanti allora costituivano col loro destino umano l’ambito a cui appartenevo (e più ci penso, più mi rendo conto che la memoria restituisce confini sociali senza varchi, senza fessure; una solida, non rassegnata, identità di classe), per costoro la volgarità era il miraggio piccolo-borghese: i tre locali più servizi, il bel tinello (o magari la sala), la rimozione, dove c’era stato, di un passato operaio o contadino (più raro quest’ultimo) e la cancellazione definitiva, rabbiosa della povertà (che c’era stata per molti, se non per tutti), della guerra, di ogni sintomo di conflittualità. Con eccessiva testardaggine, mio padre professò sempre un’insofferenza pugnace contro il lento ma inesorabile tradimento che sentiva consumarsi intorno a sé, in conoscenti, parenti, amici. Non perdonava le bugie con cui moglie e figli di un suo ex commilitone nascondevano al piccolo mondo del quartiere il monotono menu di “risi e bisi”, i due localucci dove vivevano in cinque, né che deprecassero l’approssimazione con cui si vestiva il capofamiglia».
Proprio la sua fede nel progresso, assieme all’adesione ai miti milanesi del Touring Club e della Fiera Campionaria, lo spinge a farsi pedagogo del figlio e a portarlo a scoprire la sua Milano.
«Alla domenica, quando non lo costringevo a raggiungere almeno il confine invalicabile (la sagoma delle Prealpi sullo sfondo era del resto sufficiente per soccorrere l’immaginazione di mete più lontane), mio padre mi portava in giro per Milano. Mi mostrava i muri perimetrali delle grandi fabbriche milanesi e quel che restava della guerra, i rifugi a forma di proiettile dell’Alfa Romeo, le case prefabbricate di viale Abruzzi, cert’altre bombardate e rimaste ancora in piedi. Dovevo imparare quanto la città avesse sofferto. Io registravo che ci metteva una passione che andava oltre me, e che perciò era tanto più fascinosa. Vedere i luoghi della distruzione e della ricostruzione aveva a che fare con l’ora del mondo: indomabile ottimista della volontà, mio padre era convinto che non si sarebbe più “tornati indietro”, e che dopo il male doveva seguire il bene, e che questo bene non era confinato a quello del singolo individuo».
Quanta distanza dal genitore contadino, poi operaio, infine gestore di un bar-drogheria nella provincia normanna evocato in un altro libro assai bello e terribile, Il posto di Annie Ernaux, anch’esso storia di duro lavoro e di “tradimento” della figlia.
«Dalle vacche del mattino a quelle della sera, le piogge d’ottobre, i pesanti sacchi di mele da ribaltare nel torchio, il pollaio pieno di escrementi da spalare, avere caldo e sete. Ma anche la galette des rois, l’almanacco Vermot, le castagne arrosto, Martedì grasso non te ne andare ci metteremo a cucinare, il sidro imbottigliato e le rane fatte esplodere soffiando loro in bocca con una cannuccia. Sarebbe facile scrivere cose del genere. L’eterno ritorno delle stagioni, le gioie semplici, il silenzio dei campi. Mio padre lavorava la terra altrui, non ha visto la bellezza, lo splendore della Madre Terra e altri miti gli sono sfuggiti».
Il padre di Rollo invece la bellezza l’ha vista, anche andando per le spicce, anche senza sdilinquimenti estetici, facendo coincidere il bello con il buono. Le sue fabbriche che davano lavoro e forgiavano una classe di orgogliosi produttori, le sue case popolari che davano un tetto a chi lavorava, le sue scuole pubbliche che educavano le nuove generazioni da cui sarebbero emersi non gli intellettuali, il vocabolo non faceva parte del suo bagaglio lessicale, ma “gli studiosi”, erano i veri monumenti di Milano, i segni concreti, tangibili della civiltà. Anche così, un’educazione operaia ha coinciso per l’autore con il modo in cui una città “educa” chi ci abita.
Vite proletarie, vite milanesi. Rollo ci tiene, e ha ragione, a sottolineare la loro naturale aristocrazia, la loro nobile dignità che non va confusa con quelle dei “poveri”. Sentite qui, in un altro libro bello e terribile, così vicino e così lontano da questo, Infelicità senza desideri di Peter Handke, come viene descritta la madre dell’autore: «Nessuna possibilità, tutto già previsto: piccole galanterie, risolini, un’ebbrezza breve, poi repentinamente la faccia severa, riservata, che diventava subito un’abitudine, i primi figli, stare ancora un po’ lì dopo le faccende di cucina, non essere ascoltata mai sin dall’inizio, fingere lei stessa di non udire, parlare da sola, reggersi poi a fatica, le vene varicose, niente più che un mormorio nel sonno, cancro all’utero, e con la morte la predizione alla fine si avvera. Le varie fasi di un gioco che facevano le bambine di quei posti, si chiamavano: Stanca-Debole-Malata-Moribonda-Morta».
Questa rassegnazione, questa resa senza combattere che fingiamo di chiamare destino non era nell’orizzonte di quelle famiglie cresciute tra via della Grigna, viale Cenisio e via MacMahon. Mai avrebbero accettato di essere comparse e non protagonisti; e in questo, va detto, sta la grandezza della sinistra dell’epoca, e segnatamente del partito comunista. «Ma in verità, insieme al sogno di una società giusta, mio padre amava la rotondità professionale del lavoro, il progetto condotto a termine, il millimetro che decide l’efficacia di un utensile – forse erano due modalità di considerare la bontà del vivere: giustizia e giustezza».
Questa educazione resta, come un grande fiume carsico che riaffiora e scompare, per tutta la vita. Resta come l’interrogativo di Gena Rowlands in un film di Woody Allen: «E mi chiesi se un ricordo è qualcosa che hai o qualcosa che hai perduto». Anche se, crescendo, allontanarsi e “tradire” diventa inevitabile. Ecco, ci siamo arrivati: gli anni fervidi delle scuole e dell’università in quel centro con «le vetrine abbaglianti come nelle canzoni di Jannacci», del mescolarsi a coetanei di altri ceti in quegli anni di eguaglianza e di sogno del futuro in cui, per citare il Paul Eluard così caro al grande amico dell’autore, Marco, «tutti verremo a riva d’una memoria nuova/ noi parleremo insieme una lingua sensibile», sono gli anni in cui la famiglia diventa ceppo e costrizione. E in cui l’estraneità cresce.
Lo ha detto Annie Ernaux a proposito di suo padre: «Questa distanza che si è creata durante l’adolescenza tra lui e me. Una distanza di classe, ma particolare, che non ha nome. Come dell’amore separato». Lo ribadisce, con qualche dettaglio in più, Rollo: «Dentro i confini dell’appartamento in cui vivevo con i miei genitori non c’era un orizzonte così vasto. Cercavo di portare le notizie che arrivavano dal mondo, ma ognuna di quelle notizie (cosa stavo studiando, quali libri stavo leggendo, che persone incontravo) era una tacca che misurava il mio tradimento. Entravo in una cultura per definizione borghese che faceva di me un candidato di una nuova, ancora ignota, piccola borghesia, saccente e caotica».
Tagliato verticalmente da due spaesamenti – quello di quando, bambino perso tra la folla, viene sollevato per aria e riconsegnato al padre: «Di chi è questo bambino? Milano lo vuole?»; e quello di quando, adulto nel tunnel della metropolitana in attesa dell’ultimo convoglio che non arriva, mentre combatte un vago malessere e un’oppressione al petto, convoca in flashback voci e volti della sua storia – il memoir di Rollo è la storia di un’infanzia docile e di una giovinezza moderatamente ribelle e molto esposta ai venti del cambiamento (quella di molti di noi) in cui circolano le meraviglie di quegli anni (il teatro di Beck e Brook, di Fo e Strehler, tantissima musica, molto cinema, la scoperta di libri che diventano mattoni di un’identità in fieri), è una storia tenerissima di amicizie, ed è storia della gioia di vivere messa in scacco dalle stragi ferroviarie e dai primi assassinii che preludono alla stagione terrorista. Il racconto è vivido, brillante, a tratti intenerito. Lo percorre la consapevolezza che quell’educazione operaia gli ha fornito un ancoraggio, un senso critico che gli evita gli arroccamenti nostalgici contro l’oggi, la sindrome del capitano Nemo, ma anche i facili entusiasmi da conversi rispetto ai prodigi del futuribile. «In quella Milano delle officine (che è stata anche di mio padre) mi sembra di poter riconoscere il germe di una diffusa educazione milanese, che mi capita spesso di leggere come lascito, magari filtrata da ulteriori esperienze, ma tuttora viva. Viva, almeno a fronte della volgarità implicita in ogni credula finzione di pace sociale, nel triste conforto di non avere più nemici, di non avere più radici, di non avere più una città, di non avere più storia».