Uno, nessuno, centomila spettacoli per Alberto Mattioli

In Copertina Musica, Musica

“Pazzo per l’opera”, il nuovo saggio-mémoire del giornalista e critico musicale, da lui stesso definito “autobiografia di una passione”, tratta temi seri, anzi serissimi. Ma gustosi anche: come gli intermezzi tra un capitolo e l’altro, giochini e divagazioni che vanno dal lessico famigliare del melomane, ai cento spettacoli della vita con cui giocare a “celo manca”, alla guida ai festival estivi

Chi volesse andare a cena con Alberto Mattioli, anche coi ristoranti chiusi, basta che si procuri il suo Pazzo per l’opera (Garzanti): in pratica è la stessa cosa; anzi è meglio, perché non si viene mai interrotti per ordinare. Il nuovo saggio-mémoire del giornalista della Stampa, il critico musicale e “gattolico praticante” (vedi ancora Garzanti) più seguito dentro e fuori dai social, è capace di risvegliare il melomane che chiunque si porta dentro anche senza saperlo. Soprattutto in questi mesi di astinenza forzata, in cui quando va bene c’è un concerto in streaming (ma quando va male il concerto è di Bocelli), può essere terapeutico ricordare tempi in cui si poteva abusare del teatro e in cui le opere viste in una stagione si contavano a decine. 

A proposito di conteggi, Mattioli negli anni è diventato uno specialista della statistica musicale della sua operomania: ogni serata viene appuntata in un catalogo che si avvia a superare quello di Don Giovanni (a oggi 1800 opere contro 2065 “belle”, gli basterebbe poco più di un anno per raggiungere il libertino, Covid permettendo), e nel libro ogni produzione citata è sempre accompagnata dal suo numero in lista: a ogni pazzia che si rispetti serve un metodo. Le cronache musicali di Mattioli sono, a detta dell’autore, una “autobiografia di una passione”: il modello è un po’ cellettiano (vedi Memorie d’un ascoltatore) e un po’ arbasiniano (vedi tutto, ma per sceglierne uno Marescialle e libertini), perché coi melomani Celletti e Arbasino, Mattioli condivide il dogma secondo cui l’opera è un vero e proprio stile di vita: non esiste viaggio senza biglietti per uno spettacolo, non esiste estate senza almeno un festival, e ogni serata senza teatro è una serata sprecata, perché i momenti che vale la pena vivere sono quasi sempre nelle pause tra un atto e l’altro.

La passione secondo Matteo diretta da Simon Rattle con regia di Peter Sellars. Per Mattioli una delle sue esperienze musicali più emozionanti

Ma Pazzo per l’opera non è solo una dichiarazione d’amore per il melodramma e le sue logiche razionalmente irrazionali: i temi affrontati nel libro sono tutti seri, a volte serissimi, perché dettati dalla preoccupazione che quest’arte nata come avanguardia e divenuta quasi subito inattuale possa sparire da un momento all’altro, se non si trova un modo per tramandarla alle nuove generazioni. Perciò non è un caso che Mattioli avvii le sue meditazioni musicali dal problema delle regie, tema scottante almeno da settant’anni e contro cui, sempre da settant’anni, si scagliano più o meno le stesse persone. È ai registi che, secondo Mattioli, dovrebbe essere affidato l’arduo compito di riadattare allo Zeitgeist lavori del passato che apparentemente non ci riguardano più, nella convinzione che un capolavoro abbia sempre qualcosa da dire a patto che venga letto nella giusta prospettiva. 

Del resto non si capisce perché un’abitudine perfettamente accettata nel teatro di prosa debba creare questi contrasti quando si tratta di opera. E giù quindi tutti i “Povero Verdi-Rossini-Puccini”, che si estenderebbero anche ad altri compositori se solo il “melomane medio” sapesse della loro esistenza. La fenomenologia dell’appassionato tradizionalista è senza dubbio la sottotrama più divertente del libro di Mattioli e anche di ogni suo articolo, che sia la recensione del 7 dicembre o il resoconto della finale di Sanremo. 

Folklore a parte, è vero che le direzioni artistiche non possono non porsi il problema di chi oggi sia capace di montare questi filtri tra un’epoca e l’altra, soprattutto ora che il Covid ci ha allontanato da tutti i nostri punti di riferimento, rendendo se possibile ancora più urgente una nuova lettura di questo presente schizofrenico. Mattioli fa anche qualche nome: Michieletto, Vick, Carsen, Bieito e anche qualcuno che ci si poteva aspettare di meno, come Spirei e Aliverta. Tutti registi capaci di scovare nelle opere su cui lavorano frammenti della vita di ognuno di noi perché, come spiega Mattioli con esempi e controesempi, il teatro non è un museo ma uno specchio. 

Ma ancora più gustosi dei piatti di portata del libro sono i contorni, ovvero gli intermezzi tra un capitolo e l’altro, divertentissimi giochini e divagazioni che vanno dal lessico famigliare del melomane, ai cento spettacoli della vita con cui giocare a “celo manca”, alla guida ai festival estivi che meriterebbe di diventare un libro a parte. E in questa chiacchiera gioviale e spiritosa su uno, nessuno, centomila spettacoli da ricordare, funzionano anche i lapsus, piccoli cortocircuiti della memoria che scambiano un regista o un autore. Anzi, a dire il vero sono connaturati in qualsiasi discorso che sia mosso dalla passione, perché creano universi paralleli di spettacoli possibili che rendono ancora più divertente questo piccolo mondo non sempre antico ma quasi sempre di pazzi. Ma ci sarà almeno un difetto di Mattioli? Sì, non gli piace Castellucci.

In copertina: Alberto Mattioli. Foto di Rolando Paolo Guerzoni

(Visited 1 times, 1 visits today)