FOTO © LUCA DEL PIA (da sin. Ferracchiati, Cosentino, Valentini) Abbiamo incontrato Liv Ferracchiati mentre è in prova al Teatro Sperimentale di Ancona per il…
FOTO © LUCA DEL PIA (da sin. Ferracchiati, Cosentino, Valentini)
Abbiamo incontrato Liv Ferracchiati mentre è in prova al Teatro Sperimentale di Ancona per il suo nuovo lavoro, il debutto come produttore per Marche Teatro, insieme al CSS Teatro Stabile di Innovazione del FVG, Teatro Metastasio di Prato.
Dopo la sua fortunata trilogia e mentre la riscrittura cechoviana “La tragedia è finita, Platonov” va in onda su Rai 5, il 26 e 27 febbraio, ad Ancona va in scena, invece, una nuova “creatura” di Ferracchiati, in cui i suoi topoi incrociano il suo alter ego romanzesco, protagonista del suo romanzo “è solo la fine del mondo” (Marsilio) ma anche…i trichechi!
Serve forse il loro sguardo per raccontare la catastrofe climatica che una rompighiaccio incontra mentre si dirige verso il Polo sud. Per raccontare, appunto, la fine del mondo. Forse.
Insieme a Ferracchiati salpano Andrea Cosentino e la marchigiana (che con Ferracchiati lavora da tempo) Petra Valentini (in foto).
Dopo Ancona, appuntamento a Udine, al Teatro San Giorgio, il 4 e il 5 marzo e poi in giro per l’Italia nel 2023. Nel frattempo, proviamo con Liv a tracciare la rotta.
A che punto del tuo percorso arriva questo spettacolo?
“Uno spettacolo di fantascienza” arriva dopo la scrittura del mio primo romanzo “Sarà solo la fine del mondo” e, in effetti, è un proseguimento di quella riflessione, forse una sua evoluzione. Se nel romanzo si parla di come si compone e scompone un’identità nel corso di una vita, nel nuovo lavoro si ritorna sul tema in modo allargato. Si parla delle convenzioni che fanno parte della nostra vita e di come, a volte, queste vengano assunte senza che se ne abbia piena consapevolezza. A volte si pensa che esista un unico modo di comunicarci perché suggerito dalla maggioranza e percepito come norma, ma si può scoprire che è possibile essere autori di sé stessi.
Si guida a destra, ma non in tutti paesi, solo per fare un esempio scemo.
Come si racconta la fine del mondo? Sembra un problema di approcci: quello consolatorio contro quello catastrofista. Come dovrebbe farlo il teatro?
In realtà, incentro tutto proprio su due domande: “come si racconta la fine del mondo?” E: “di quale mondo si sta provando a raccontare la fine?”
Mi riferisco proprio alla questione identitaria e a come ci rappresentiamo per narrare noi stessi agli altri.
Non a caso, Uno spettacolo di fantascienza, è un testo in cui cambia bruscamente il linguaggio, ci sono due modi di rappresentare e, dunque, di scrivere, molto diversi tra loro. Anche la scrittura drammaturgica segue delle regole e delle convezioni e assumerne una o un’altra definisce il profilo di chi scrive. In questo modo, quando uno spettacolo inizia sai anche più o meno in quale stile terminerà. Cosa succede però se, come in questo caso, inaspettatamente, questo stile varia e in un modo in cui non ci aspetteremmo? Come si muove la nostra percezione? Dove ci posizioniamo? Come cerchiamo di decifrare quello che abbiamo davanti?
Spererei che durante lo spettacolo allo spettatore capiti di sentirsi un po’ spiazzato, pur continuando a percepire un filo conduttore, come a tutti capita quando cerchiamo di definire gli oggetti intorno a noi, le altre persone e la vita.
Ti occupi da sempre di identità. È anche questo uno spettacolo su questo tema? In che rapporto stanno identità individuale e collettiva?
Questo spettacolo parla di “rappresentazione identitaria”, sembra un concetto astruso e filosofico, invece è molto concreto. Perché indagare il modo in cui narriamo quello che siamo ha ripercussioni di estrema concretezza. Può influenzare il taglio dei nostri capelli, il modo in cui ci vestiamo o la nostra gestualità, ma decreta anche ciò che permettiamo a noi stessi di vivere e quello che reprimiamo. Il parallelismo con la fine del mondo è un modo per raccontare il senso di minaccia e la vertigine che può investire chi sceglie di affacciarsi a guardare cose c’è oltre la “norma” e si mette in ascolto della propria natura di essere umano. Non si tratta di una divisione tra “strani” e “normali”, si tratta di uno spostamento radicale e sconvolgente del punto di vista comune che dona consapevolezza.
In “Sarà solo la fine del mondo” Guglielmo Leon sceglie la propria identità, il tempo e il modo del racconto. Qui c’è uno spazio di creazione, di scelta di quello che si vorrebbe oggettivo, come lo spazio e il tempo: un luogo della felicità può solo essere inventato o deciso per sé?
Lo dicevo prima, sarebbe auspicabile essere autori di se stessi.
Alcune abitudini stratificate, col tempo, sono diventate modalità di interpretare il reale che, quando vengono messe in discussione, creano forti dissidi tra coloro che creano nuovi mondi e coloro che difendono un agire più noto.
In “Sarà solo la fine del mondo” il protagonista del romanzo, Guglielmo Leon, scopre di non aderire al canone femminile che gli era stato assegnato e quindi scompone la propria identità e la ricompone come maschile. A quel punto però si accorge che la gabbia sesso\genere, per citare Preciado, è, appunto, una nuova gabbia, un’altra forma o potremmo dire, un altro schema di rappresentazione identitaria. Non c’è niente di male ad aderire ad un canone o ad uno schema, ma è importante saperlo riconoscere, per non rimanere imprigionati al suo interno.
Se nel libro però Guglielmo Leon, da un modello femminile, passa ad assumere un modello maschile, in “Uno spettacolo di fantascienza” pongo un’ulteriore questione al centro.
Non sarà che l’identità che ogni essere umano, per forza di cose, deve formare e consolidare, non solo è in continuo divenire e quindi fluida, ma anche l’esito di un’adesione stratificata a dei segni convenzionali piuttosto che ad altri.
Quindi la domanda, ancora più nello specifico, è: se ognuno di noi sceglie un taglio di capelli o un altro, un vestito o un altro, di mettere il rossetto oppure no, non sta costruendo e deostruendo la sua identità esattamente come il protagonista del mio libro Guglielmo Leon. Sarò ancora più esplicito: non sarà che, come accade più consciamente per Guglielmo Leon, anche tutti gli altri compiono un percorso di adesione a dei modelli culturali e a dei ruoli di genere che li portano ad essere quello che sono senza accorgersene?
Se mio padre indossa una giacca da uomo ha aderito ad un modello maschile preconfezionato, non meno di me che la sto indossando adesso.
Non c’è niente di male, basta solo esserne coscienti.
Per altro mio padre indossa raramente giacche, è uno dal look casual, ma era solo un esempio.
Parli di un ritorno al primigenio: c’è un tema che mi era particolarmente a cuore e che mi accorgo torna spesso ultimamente. Un’età dell’oro a cui tornare, che forse non è mai esistita ma che rimpiangiamo. Vale anche per te?
Non so se auspico di ritornare ad un’età dell’oro. L’Uno Primigenio, al modo della cultura greca però mi affascina molto. L’individuazione è il peccato originario della Grecia antica e forse anche della nostra contemporaneità.
In qualche modo questo concetto filosofico mi torna spesso in mente.
Penso che noi, come esseri umani, possiamo vivere pienamente quando ci ricordiamo di essere parte di un Tutto. Se mi permetti di dire una stupidaggine seria, Alan Sorrenti, cantava la notissima: “Siamo figli delle stelle”…ecco, l’Uno Primigenio doveva essere noto a Sorrenti, perché è proprio questo il punto. Formare una propria identità significa essere individui, ma significa anche isolarsi da quell’unione primigenia che idealmente ci faceva essere contemporaneamente tante cose (esagero? Tigre, sasso, acqua, albero eccetera) In altre parole, quando “ io non ero io”, ero Tutto.
Questo “io”, insomma, va un po’ tenuto a bada perché nell’economia universale non è così rilevante.