Un’analisi dello spettacolo di Rifici al Piccolo, ispirato al testo di Vittorini…
Per tracciare il disegno di una storia, fosse anche la grande Storia, è necessario prima di tutto stabilirne le coordinate: lo spazio e il tempo. Su questi due assi cartesiani si muove la trasposizione scenica di Uomini e no, al Piccolo Teatro, tratto dal romanzo di Elio Vittorini.
Il tempo, innanzitutto: l’inverno del 1944, mite ma tutt’altro che accogliente. Avvolge infatti – ecco il luogo – una Milano ferita, occupata. Sventrata. Così come lo è l’originale non-luogo in cui la regia di Carmelo Rifici ambienta la vicenda: un tram, o lo scheletro che ne resta. Uno spazio che si carica di molteplici significati.
Il rifiuto di staticità, da un lato, ma anche il suo esatto opposto: la creazione delle radici. Niente meglio del tramvai infatti può ergersi a simbolo dell’operosa Milano, che per questo spettacolo non è semplice ambiente ma necessaria radice dell’intera costruzione.
La mappa entro cui ci si muove è tracciata con precisione, strada per strada. Tra le vie lo spazio del Teatro Studio Melato rende facile l’evocazione degli spostamenti con una lunga teoria di mezzi di trasporto, che concorrono a descrivere con precisione un’altra peculiarità di Milano. Chi conosca la città, può identificare con esattezza ciò che vedeva chi abitava in quei giorni una città in cui si conosceva l’indirizzo dal quale si usciva al mattino, ma non quando, se e dove si sarebbe potuto tornare a sera. Per le strade, infatti, si sta consumando la guerra civile.
I nazisti e i repubblichini da un lato, i gruppi di partigiani dall’altro. Ed è nei loro volti che si mostra un altro tempo: quello delle loro età. Sono ragazzi che non hanno ancora trent’anni, quelli che combattono “perché gli uomini siano felici”. La stessa età dei giovani attori che danno loro corpo. Ma non potrebbe essere maggiore la distanza. Il compito affidato a un cast nutritissimo – ben sedici interpreti – è proprio segnalare ciò che non esiste più: il legame totalizzante con il proprio luogo, innanzitutto; sia esso natio o adottivo, come per il capo del gruppo, Enne due (Salvo Drago), Naviglio due, siciliano trapiantato proprio come Vittorini. Ma il contesto è la semplice superficie.
I ventenni di allora incarnavano un modo oggi lontano di intendere i rapporti. Erano diverse le responsabilità, le tensioni ideali da cui si sentivano animati. L’ingenuità di cui non erano privi si nascondeva sotto riflessioni dense, praticate con disinvoltura. Uomini e no” tratteggia un mondo ormai estinto, che si lascia osservare in quanto porzione di Storia. La cui poeticità si lascia ammirare grazie alla scrittura scenica di Michele Santeramo, che sottolinea la prosa affascinante di Vittorini spezzando la narrazione, affidando il compito ai personaggi di descrivere il proprio agire, esplicitando didascalie, passaggi del romanzo e i corsivi di cui lo scrittore torinese ha disseminato il testo originale.
Ne risulta un insieme del tutto anti-naturalistico che si trasforma spesso in esibizione tecnica, e si sublima nella sorprendente scena curata da Paolo di Benedetto, che nell’abbondante spazio offerto dalla particolare conformazione del teatro Melato riesce a far muovere due monconi di tram e un praticabile che scorrono su due binari, a far entrare diverse biciclette, e a estendere lo spazio della scena anche al di sotto del pavimento, sfruttando a piene mani le possibilità scenografiche, come raramente accade di vedere oggi.
È in questo contesto che si dipana il racconto delle azioni del gruppo partigiano, che quando si fa epopea collettiva corre sul filo della retorica, evocando certa filmografia d’antan che si specchia nei costumi: al contrario del resto, accuratamente naturalistici.
Una voce di molti che si rende decisamente più credibile e intensa quando le vicende collettive diventano individuali. Vittorini tesse infatti una trama dove pubblico e privato, la guerra e l’amore si compongono in un puzzle dove l’uno non può esistere senza l’altro. Ma è l’epica minima dei singoli, più ancora dei loro sentimenti, a risultare efficace, anche grazie a interpreti di livello: il giovane partigiano in incognito che si prende cura dei cani dei tedeschi, Figliodidio (Francesco Santagada), Giulaj (Alessandro Bandini), apparentemente il più giovane di tutti, che sceglie di immolarsi anziché accusare i compagni e ride e non grida mentre muore, perché la giovane moglie non soffra, o la bambina uccisa per rappresaglia in Largo Augusto (Marta Malvestiti).
Nella resa di un romanzo che traccia fin dal titolo i confini tra buoni e cattivi, tra uomini e no, sono soprattutto i secondi a risultare riusciti, in scena, con la loro immagine viscida, grottesca, ridicola, di chi si dipinge un ghigno stolido sul volto nell’attesa della fine, assurdamente inconsapevole o – al contrario – spietatamente preventivata.
Nonostante le differenze che il tempo ha segnato, Uomini e no dimostra di parlare al presente non soltanto come attenta ed evocativa ricostruzione storica. Perché è quando ci si trova sul fondo del baratro che le certezze vengono meno. E anche la distinzione che Vittorini fa apparire programmatica potrebbe non esserlo: “Fuori dell’uomo cosa sarebbe il fascismo? Potrebbe fare quello che fa se non fosse nell’uomo?”
(foto di Masiar Pasquali)
Uomini e no, al Piccolo Teatro fino al 19 novembre