Album terapeutico l’ultimo della cantante islandese. Per ritrovar se stessa a contatto con gli elementi. “Utopia” dispiega una musicalità matriarcale, generosa come l’oceano, creativa come la natura
Negli ultimi dieci anni, Björk, iconica artista islandese sempre alla ricerca di nuovi esperimenti sonori, ha toccato il punto più concettuale, e subito dopo quello più personale, della sua carriera. Dopo Biophilia (2011), un album ispirato ai suoni della natura nella sua nativa Islanda confezionato sotto forma di app interattive, ha prodotto Vulnicura (2015) che tratta in modo onesto e vulnerabile la fine della sua relazione di 13 anni con Matthew Barney. Entrambi hanno ormai raggiunto uno stato di culto, culminato in una mostra personale al MOMA di New York.
Tutto questo non ha fatto altro che alzare l’asticella, già estremamente alta, per un’artista nota per la sua agilità creativa e visione innovativa. Utopia, il suo nono album in studio uscito questo 24 novembre, riesce comunque a oltrepassare le aspettative. In termini musicali, Utopia funziona come una sintesi delle sonorità dei due dischi precedenti: la dimensione naturalistica, nel soundscape quasi fantasy incentrato su un eco del canto degli uccelli, accoppiata a un suono più emozionale, che si dispiega in sezioni elettroniche, rimpiazzando gli archi di Vulnicura con euforici fiati, soprattutto flauti.
Il nuovo album è stato ampiamente identificato come il ritorno all’amore di Björk dopo la devastante rottura narrata da Vulnicura; lei stessa lo ha descritto, scherzando, come il suo Tinder album. Blissing Me, il secondo singolo tratto dall’album, fa riferimento all’uso dei social per “scambiarsi MP3” e innamorarsi attraverso la distanza del web. Ma questa è una versione di Tinder molto più interessante di quella reale, e Blissing Me vuole trasmettere l’esperienza dell’infatuazione, quella che riesce a risvegliare il corpo dopo la chiusura di un cuore infranto.
Questa voglia di rinascita è evidente già dal pezzo di apertura, Arisen My Senses. Il brano esplode di tutta la gioia che manca su Vulnicura, ripartendo da un loop di arpe, tastiere e un beat che suona come una cascata di diamanti. La voce di Björk è sdoppiata, facendo eco a se stessa infinitamente mentre descrive letteralmente il risveglio del suo corpo all’attrazione verso un altro uomo.
Body Memory è la magnum opus dell’album, quasi 10 minuti di epica, ipnotica elettronica. Con l’apparizione del coro islandese Hamrahlid, Body Memory è stata composta come “antidoto” alla disperazione di Black Lake, la canzone centrale di Vulnicura. Infatti, sembra quasi che Björk, in ogni strofa, inventi una strategia per ripartire da zero, appoggiandosi alla “memoria del corpo”, manifestata nella sessualità e nella corporalità, che è istintiva come la sopravvivenza.
In Body Memory, una delle trappole da cui liberarsi è la “farsa della patriarchia”. In Tabula Rasa, il tema viene sviluppato ancora più a fondo: motivata dall’amore per i figli, Björk si augura un futuro dove non si rimane schiacciate dalla patriarchia, e dove le donne possano essere libere (“not repeating the fuck-ups of the fathers… It is time: for us women to rise…”). Forse è questo il significato del titolo del disco: l’utopia è il desiderio di ricominciare da zero, sia a livello personale che sociale; potersi esprimere liberamente col corpo e con la mente, senza dover subire il retaggio del patriarcato. Tanto che, su Saint, si manifesta una figura di divinità matriarcale, che probabilmente è la musica: una presenza salvifica che “guarisce”, e che Björk vuole “difendere”.
Utopia funziona come un manifesto, una dichiarazione artistica che serve non solo a ricucire la ferita aperta su Vulnicura, ma soprattutto a mostrare come si possa scrivere evitando gli “errori dei padri”, orchestrando una musicalità matriarcale, generosa come l’oceano, creativa come la natura.