Si è spento a Milano Valentino Vago, artista riconosciuto come maestro dell’astrattismo italiano del Novecento, che ha lasciato opere di rarefatta poesia cromatica e ha inondato chiese di luce e di colori. Un ricordo.
“Fontana ha fatto i tagli, io ci sono entrato dentro”. Così parlava della sua pittura Valentino Vago, classe 1931, maestro dell’arte astratta italiana e interprete contemporaneo della grande tradizione occidentale della pittura murale sacra, che pochi giorni fa ci ha lasciati dopo ottantasei anni passati “a camminare a passi veloci, sempre alla ricerca della bellezza”.
Scampato a una precoce carriera di mobiliere brianzolo, passato per l’imperante informale dei suoi anni a Brera – che interpretò con superfici ritmate e vagamente materiche – Vago affrontò presto il falò purificatore del suo lavoro giovanile, che gli permise di trovare la vera essenza della sua ricerca. La materia cominciò a decantare, ogni riferimento visivo sparì e lo spazio che rimase fu subito occupato dalla sua vibrante sensibilità per la luce e per il colore.
Smaterializzata la pittura, annullato l’orizzonte, Vago partì alla ricerca di effetti non prospettici, di una pittura dal respiro cosmico che trovò la sua collocazione perfetta nelle opere abitabili e soprattutto nelle chiese, dalla prima, quella di San Giulio a Barlassina, suo paese natale, del 1982, alla più vasta, 12.000 mq, dedicata a Nostra Signora del Rosario a Doha nel Qatar del 2008 fino all’ultima, la più amata, quella stessa chiesa di San Giovanni in Laterano a Milano decorata nel 2017 dove si sono svolti i funerali.
Colore, luce, spazi infiniti, suoni alti e vibranti. Per Valentino Vago, a suo stesso dire, dipingere era come essere al bar, nel senso che per lui l’opera nasceva quasi per propria autodeterminazione, tramite lui che ne era il medium e non l’autore. Non cercava l’incursione nel suo cosmo avvolgente ma se ne lasciava penetrare, annullare, quasi a voler abolire la sua presenza personale. Per lui dipingere una piccola tela o un enorme muro era indifferente. “Tanto io non ci sono – diceva – perché se ci fossi, automaticamente mi porrei dei limiti». Un superamento dei limiti attraverso l’abbandono che non è passività ma ricerca continua, a passo spedito fino alla fine, sempre con le dita intinte nel colore e la voglia di mettersi in gioco.
Quando dieci anni fa partì per il Qatar si portò dietro un’assicurazione per il rientro della (sua) salma in Italia. Un brutto male lo minacciava, ma non bastava certo questo a fermarlo. Partì, fece quel che doveva e tornò, guarito. Non volle mai parlare di miracolo, ma certo un sospetto che Nostra Signora del Rosario ci avesse messo una parola buona non può non essergli venuto. Perché la ricerca spirituale di Vago non era certo adesione passiva ma, ancora una volta, abbandono, ricerca di Dio senza retorica, conquista dello spazio e del cosmo, affermazione del Sé nella dimensione della bellezza.
L’ultima mostra di Valentino Vago, inaugurata pochi giorni dopo la sua morte, lo vede come nume tutelare di un gruppo di giovani artisti che con lui dialogano, alla ricerca di una continuità che suona oggi come un testamento, un passaggio di testimone. L’ultima mostra scelta da lui mentre era ancora in vita – seppur già malato, quasi a voler ribadire la sua essenza di pittore instancabile e insaziabile – entra in perfetta relazione con i quattro giovani che lo accompagnano. Ma il più giovane, a detta di molti, sembra proprio lui.
“Stupido come un pittore”, a cura di Rossella Farinotti e Simona Squadrito, Villa Vertua Masolo, Nova Milanese – MB, fino all’11 febbraio 2018.
Immagine di copertina: Valentino Vago, VV 157 1931, 2017