Ospiti della Filarmonica della Scala, il direttore, celebre per le sue interpretazioni di grandi partiture russe, e l’Orchestra Mariinskij di San Pietroburgo hanno entusiasmato il pubblico del Piermarini con Debussy, Mendelssohn e Quadri di un’esposizione di Musorgskij
Bisogna riconoscere a Valery Gergiev e all’Orchestra Mariinskij, ospiti il 4 febbraio della Filarmonica della Scala, il merito di aver mostrato l’insostituibilità dei concerti, di sinfonica in questo caso. Le nostre orecchie, abituate all’ascolto di registrazioni impeccabili, faticano sempre più ad apprezzare la musica dal vivo a meno che non esca da amplificatori potenti. Si potrebbe discorrere a lungo sull’interpretazione che il maestro russo ha dato dei brani, così diversi tra loro nella scrittura e nell’orchestrazione, ma è altrettanto certo che di fronte a un simile risultato non si possa rimanere indifferenti.
Al di là del taglio interpretativo dato ai brani, Gergiev e la sua orchestra hanno dato prova di una notevole professionalità e maestria, dandoci la possibilità di ascoltare una musica raccontata con il cuore in una serata memorabile. Il maestro “suona” l’orchestra come se fosse un pianoforte e tutti gli strumenti gli rispondono con la precisione dei tasti sotto le dita di un raffinato pianista.
Il tempo staccato del primo brano, Prélude à l’après-midi d’un faune di Debussy, è lento e vi si assaporano tutti gli accordi pastosi e l’intrico delle voci dell’intera orchestra. Dopo l’inizio titubante del flauto solista, forse teso per la responsabilità di dover rompere il ghiaccio, gli altri strumenti, l’arpa, i corni e i delicatissimi archi, entrano poco a poco e, al momento della seconda esposizione del tema, l’incantesimo è già in atto: l’attenzione rivolta alle dinamiche e alla concertazione, tutto pare fragile e delicato come il cristallo ma tenuto insieme da una mano sapiente che evoca una realtà sospesa tra la veglia e il sogno e a cui ci si abbandona volentieri.
Dalla Francia si passa alla strana commistione cattolico-protestante della sinfonia italiana di Mendelssohn, concepita tra il 1931 e il 1932 nel suo celebre soggiorno nella nostra penisola. La cantabilità di queste pagine è poco evidenziata e lascia spazio a un suono a tratti disomogeneo e a una forma “squadrata”, ma non per questo meno piacevole.
Il tempo scelto dal direttore per l’Andante, il cui carattere gli era valso l’appellativo di “marcia dei pellegrini”, è piuttosto veloce e forse proprio per questo la melodia non canta come potrebbe: non vi si sente una processione, così come non vi si sente l’incedere del basso, falsamente barocco, preso in prestito dall’amato Bach. L’esagerazione drammatica, l’esasperazione dei contrasti dinamici ha portato comunque a un risultato affatto originale grazie al quale abbiamo avuto una visione diversa di una sinfonia notissima; e a proposito della disputa irrisolta scatenatasi fin dal 1833 fra chi catalogava questa sinfonia come neoclassica e chi come romantica, possiamo dire che la direzione di questa sera la inserisce con decisione nella seconda categoria. Il terzo movimento, delicato e cantabile, di cui Gergiev indovina con gusto il tempo e l’intenzione, ha una leggerezza impalpabile. A sorpresa, il Saltarello finale suona quasi come una danza infernale, preso a un tempo molto veloce che trasfigura il tema fino a renderlo irruento e travolgente.
Si potrebbe credere, probabilmente senza sbagliare di molto, che un’orchestrazione esemplare come quella che Ravel fece dei Quadri di un’esposizione riesca a convincere l’ascoltatore più esigente anche prescindendo dalla qualità dell’orchestra, ma d’altra parte è soltanto dopo averla ascoltata in una esecuzione magistrale che si può apprezzare la reale finezza di queste pagine. I colori che il compositore francese ha usato per rappresentare le immagini fantasiose di Musorgskij mai sono apparsi così nitidi e convincenti come in questo concerto.
Gergiev, stimato per le sue interpretazioni di compositori russi, si conferma anche in questo brano un grande direttore, dotato di una visione limpida e organica di una partitura che si presta spesso a una lettura rapsodica e frammentata.
Alla fine del concerto, dopo i primi applausi, il direttore è tornato sul palco per proporre un entusiasmante bis con l’ouverture della Forza del destino, omaggio al pubblico italiano che lo saluta e lo ringrazia con entusiasmo.