Lo spettacolo delle Nina’s Drag Queens si ispira alla Voce umana di Cocteau per raccontare la storia di Alma Mahlerela, la musa di Oscar Kokoschka… con una grande interpretazione di Lorenzo Piccolo
L’arte, e con essa la scena, racconta l’umano cercando, nella molteplicità del suo agire, quelle che la matematica chiamerebbe invarianti, la letteratura topoi. L’addio al termine di un amore è uno dei più importanti, dei più vicini al sentire di ciascuno. Lo stato di archetipo, che rischia sovente di essere frustro, richiede un’accurata costruzione per essere originale.
Proprio da qui muove Vedi alla voce Alma_: Lorenzo Piccolo costruisce la scena, un elemento alla volta, cautamente, con cura. Ne svela così la natura squisitamente teatrale, tratteggiandone al contempo delle accurate note di regia, che chiedono una stanza bluastra, arredi bianchi, luci crude. E una interprete. Indicazioni che altro non sono se non le parole di Jean Cocteau, per La voce umana. Un testo che appunto sulla voce si fa perno: quella che passa attraverso il filo di un telefono al quale una donna abbandonata si aggrappa come all’unico motivo per restare in vita, in una spirale di annientamento.
A cui fa da contraltare la forza e l’indipendenza di Alma Mahler, compagna e musa di Oskar Kokoscha, celebre pittore espressionista, fino a quando lei non lo abbandona. Il pittore però non è disposto a rassegnarsi: impone così a una modista, moderna Pigmalione, di modellare una bambola di Alma, con la quale costruire una vita comune modellata sulle proprie esigenze ed aspirazioni.
La pièce non intende però addentrarsi nelle pieghe psicologiche dei suoi personaggi, o indagare ciò che un addio lascia ai chi lo subisce: “qui si risolvono problemi di ordine teatrale”: In questa ottica acquisisce senso la scelta di intessere due vicende in una trama suggestiva e costruita sulle reciproche opposizioni, benché le due storie si limitino ad essere giustapposte.
Nei brani tratti da Cocteau la voce si rifrange e si moltiplica, interpolando le lingue e i mezzi espressivi, dalla prosa alla musica. Ma nell’interpretazione di Piccolo la voce non è che una eco: l’attore sceglie infatti di farsi corpo, prestando i movimenti di ciascun muscolo alla donna che interpreta. Sono le sue stese membra ad evocare anche la bambola, in un gioco sul filo dei generi che è la sola concessione all’abituale ruolo di drag queen che Lorenzo Piccolo veste insieme alle Nina’s, che firmano la produzione del monologo.
Anche su questo piano lo spettacolo stupisce: non c’è ricorso agli eccessi, la femminilità esibita e talvolta ironicamente caricaturale che spesso ci si attende quando si sa di assistere al lavoro di una compagnia di drag queen. Piccolo fa uso di alcuni selezionati strumenti del mestiere; una parrucca, abiti colorati, un paio di scarpe coi tacchi, per calarsi nei panni di due donne senza dar loro nulla di parodistico. Quella che si riflette a fondo scena davanti agli occhi dello spettatore è l’ombra di ciò che rimasto all’artista di una donna autentica, che Lorenzo Piccolo vivifica con una grazia naturale e una leggerezza di movimenti che farebbero l’invidia di numerose donne. Se cede all’ammiccamento lo fa con garbo, e sempre dove necessario a una resa empatica del testo.
A offrirsi sulla scena è un saggio delle potenzialità del teatro che passa attraverso lo svelamento della drammaturgia, ma anche numerose interpretazioni da cui l’attore entra ed esce senza soluzione di continuità. A sostenerlo una regia misurata e accuratamente studiata, in cui Alessio Calciolari (che firma anche la coreografia) elimina tutto ciò che non è necessario, costruendo un’atmosfera minimale ed evocativa, riuscita perché dà l’impressione di avere esattamente i pochi elementi necessari. Piccolo, anche drammaturgo, firma un testo ricchissimo di rimandi multidisciplinari offerti fra le righe a chi li sappia cogliere, che si rifanno in gran parte all’opera di Kokoschka.
Ne deriva una messa in scena di realtà per dire il momento nel quale la donna perde sé stessa, si sottopone – che ne sia o meno consapevole – a una devozione perversa che non ha neanche più bisogno del suo concreto esistere per farne nient’altro che una immagine proiettata, una musa assemblata un dettaglio dopo l’altro.
Una silhouette che può avere eco nella realtà di chi musa lo è diventata davvero: il destino della “voce umana” non si è rivelato infatti altro che quello del medesimo Cocteau e di Edith Piaf, donna archetipo per eccellenza, grandiosa e fragile. Tuttavia essa è destinata alla consunzione, quando chi ne ha avuto l’esigenza non può più trarne nulla, fino a diventare niente, perché: “Nessuna musa, una volta che è andata, può mai tornare”.
(foto di Valentina Bianchi)
Vedi alla voce Alma_, al teatro dell’Elfo fino al 25 giugno