Cosa accomuna Napoli a Bergamo? A prima vista non molto. Eppure, alla fine del XVII secolo Bergamo cercò a Napoli gli artisti migliori per decorare i luoghi più sacri della città. “Napoli a Bergamo. Uno sguardo sul ‘600 nella collezione De Vito e in città”, in mostra all’Accademia Carrara di Bergamo fino all’1 settembre 2024, disegna i contorni di un episodio poco studiato della cultura figurativa, portando all’attenzione della critica e del pubblico nuove attribuzioni e nuovi documenti che testimoniano gli scambi proficui tra le due città.
Chiunque abbia trascorso del tempo in Italia avrà assistito a qualcuna delle diatribe tra Nord e Sud: scontri stereotipati che sottintendono il discredito reciproco dei contendenti e un’affannosa ricerca di identità. Come l’arte ha il potere di annullare le distanze e, in parte, di redimere le umane meschinità, una mostra può diventare il luogo ideale in cui esperienze apparentemente lontane confluiscono per svelare associazioni inaspettate. “Napoli a Bergamo. Uno sguardo sul ‘600 nella collezione De Vito e in città” indaga il profondo ma poco noto rapporto tra la pittura campana e la città lombarda. La mostra restituisce al pubblico, grazie a nuovi apporti documentali, attribuzioni e restauri, un buon numero di opere di matrice partenopea presenti in territorio orobico: uno scambio artistico e mercantile inaugurato col misconosciuto Pietro Mango, pittore presso i Gonzaga, attivo a Brescia e dintorni già verso la metà del XVII secolo.
Esempio eclatante di questo sodalizio culturale e commerciale è il telero “Il Passaggio nel Mar Rosso” di Luca Giordano arrivato a Bergamo attraverso la mediazione della Serenissima per decorare la navata centrale della basilica di Santa Maria Maggiore. Snodo fondamentale del percorso espositivo è proprio la proiezione digitalizzata della tela. Diversamente dai sempre più diffusi allestimenti privi di opere e comicamente definiti “immersivi” o “esperienziali”, qui, la versione virtuale del monumentale dipinto si giustifica appieno, mostrando dettagli altrimenti impossibili da apprezzare, dato il posizionamento dell’originale. La composizione è spaccata diagonalmente in due parti: il riposo degli israeliti all’arrivo sulla terra ferma si contrappone all’annegamento degli inseguitori egiziani inghiottiti dai flutti, visto tramite l’invenzione di un punto di vista quasi subacqueo. La pittura cupa che ricorda lo stile dei Bassano rivendica la sua indipendenza dalle leggi mondane, mescolando sincronicamente diversi momenti dell’episodio biblico.
Sempre del Giordano è il gruppo di dipinti provenienti dalla chiesa di Sant’Evasio a Pedrengo, esposti insieme per la prima volta. Tenebristi e ribereschi i grandi quadri impastano la luce con la materia degli incarnati. I gesti pittorici si identificano con la gravità delle anatomie. I solchi lasciati dalle setole del pennello si sovrappongono alla pelle avvizita dei soggetti, assieme senili e muscolosi. La descrizione drammatica dell’iconografia religiosa, coerente con le crudeltà dell’inquisizione spagnola esercitata anche nella Napoli del viceregno, non è però l’unica caratteristica delle rappresentazioni. Le figure splendenti, rovesciate violentemente sulle tele, valgono come forme assolute e sono solo in parte legate alla descrizione. Gli angoli articolalari dei corpi strutturano e dettano l’andamento della composizione, aggiungendo un livello di paradossale astrazione all’immagine, proprio come avviene nei capolavori dell’inarrivabile Jusepe de Ribera, che coniuga crudo realismo ed eleganza rinascimentale.
Sempre dello Spagnoletto è presente nelle sale un notevole ‘Sant’Antonio Abate’, affiancato ad opere del Battistello, del Caracciolo, di Stanzione, del Maestro delle annunciazioni ai pastori, nei cui dipinti enigmatici risuona Velasquez.
La “Deposizione di Cristo dalla croce” di Mattia Preti anticipa il coinvolgimento emotivo e l’eloquenza narrativa tipici della pittura settecentesca più matura. Questo nucleo di lavori deriva in blocco dalla Fondazione Giuseppe e Margaret De Vito e aiuta a comprendere il panorama seicentesco napoletano, rivelando influenze vicendevoli tra correnti venete e bolognesi, iberiche e fiamminghe, naturalistiche e barocche. Ingegnere e imprenditore partenopeo trasferitosi a Milano negli anni ’50, De Vito sviluppa un interesse profondo e sistematico per questo momento specifico della storia dell’arte, superando il semplice collezionismo e diventando vero e proprio ricercatore, studioso e interlocutore irrinunciabile persino per gli storici più ortodossi. Oltre al grande valore qualitativo e filologico apportato dai generosi prestiti della Fondazione, la figura peculiare di De Vito, migrante che approfondisce le proprie origini, scienziato e umanista, si integra perfettamente nel racconto di viaggi, connessioni, intrecci e unificazioni che la mostra dispiega.
Usciti dall’Accademia Carrara il messaggio che ci raggiunge è chiaro: la capacità dell’arte di demolire i confini, di smentire concetti divisivi e qualunquisti, di ispirare un’interpretazione del reale meno affetta da pregiudizi resta la lezione più importante e inscoltata a nostra disposizione.
In copertina: veduta dell’installazione di Napoli a Bergamo. Uno sguardo sul ‘600 nella collezione De Vito e in città. Al centro: Maestro degli Annunci ai pastori, Giovane che adora una rosa (Allegoria dell’Olfatto?), 1635-1640 ca. Vaglia (FI), Fondazione Giuseppe e Margaret De Vito.