Il tragicomico masochismo di Sabrina Impacciatore e di Valter Malosti, tra ritorsioni verbali e dominazioni lavorative. Al Teatro Carcano, la Venere in pelliccia di David Ives riappare travestita di un nuovo candore, esilarante, seduttivo, ma troppo sfumato
“Dio lo ha punito e lo ha dato in mano a una donna” – recita così uno dei versetti biblici più ricorrenti nel celebre romanzo di Leopold von Sacher-Masoch. Al pari del quasi contemporaneo marchese de Sade e della sconvolgente Lolita di Nabokov, data per concessa l’elasticità cronologica, Venere in pelliccia riuscì sin da subito a scandagliare le turbe della condotta morale di fine Ottocento, affascinandone segretamente i moralisti.
Da qui il commediografo David Yves ne attuò una riscrittura volutamente metateatrale premiata con svariati Tony Award a Broadway, ambientata all’interno di una sala prove, dopo una lunga giornata di audizioni deludenti. È in quell’istante che fa il suo ingresso una donna con uno spolverino fradicio di pioggia e contraddistinta da una sboccata trivialità colloquiale, apparentemente innocua e frivola.
Lui, l’adattatore in cerca di una “preda-protagonista”, è Valter Malosti, che per questo spettacolo poteva anche firmare solamente la sua buona regia, evitando di interpretare in modo fastidiosamente statico un ruolo poco recitato e ancor meno preciso, salvo qualche raro intermezzo di aderenza attoriale al testo.
La Venere in ecopelliccia, o in scialle, è invece una versatile e provocante Sabrina Impacciatore, la versione trasteverina di Vanda Jordan (nel romanzo Wanda von Dunajev). Al di là della farsa, l’accoppiata si compensa invero molto bene sulla scena, tra sguardi traboccanti di seduzione, fraseggi ambigui e un buon ritmo recitativo che incalza fino a momenti di sottomissione verbale e al finale metafisico della dea vendicatrice.
Ogni atto di dominazione tra i due è un equivoco panerotismo, l’interessante pallacorda tra doppie dicotomie umane: uomo e donna, angelico e demonico, sadico e domato.
La scena è curata nella sua semplicità: del taffetà nero srotolato incornicia le tre pareti, una chaise-long rosso carminio, un tavolino con un termos argentato, un tubo che potrebbe ricordare (ma non ricorda) un palo da lap-dance e la comprensibile decisione di sopraelevare un secondo palco per dare l’impressione del teatro nel teatro, causando però un potente rimpicciolimento scenico e uno stritolarsi dei protagonisti.
A ben vedere è una tecnica che porta con sé i suoi lati positivi, ci si poteva però aspettare una maggiore vivibilità del palcoscenico che avrebbe garantito meno fissità. I costumi da black comedy, dalla livrea con collarino in pelle borchiata alla redingote grigia di Malosti, fino al broccato sintetico e alla giarrettiera di Vanda, sono un’ode chiaroscurale e simbolica dei caratteri. Il progetto sonoro e le curatele della luce apprezzabilissime, così come gli adattamenti musicali da Wagner che danno lo stacco tra i due registri di recitazione in mise en-abyme.
Fino a domenica 4 febbraio al Teatro Carcano, per curiosi che vogliono rivedersi un Polański italianizzato e spettatori allegramente masochisti, ma non solo.
Venere in pelliccia, al Teatro Carcano fino al 4 febbraio