Si parla dell’opera in scena al Regio di Parma. L’edizione concepita dal grande Graham Vick, morto nel luglio scorso, ed ereditata da Jacopo Spirei ne mette in risalto gli aspetti ambigui, in cui protagonista a ben vedere non è Riccardo, governatore di Boston, ma Gustavo III di Svezia, che era davvero omosessuale. Solida la direzione di Roberto Abbado, che punta all’omogeneità
Sarebbe una vera sfida rintracciare nella storia dell’opera una serata che non sia stata in qualche modo queer. Chi volesse approfondire il tema può godersi il bellissimo Pazze per l’opera, documentario di Rosa von Parunheim sul rapporto tra opera e omosessualità, o leggersi una qualunque pagina di Arbasino. Fatto sta che qualche distratto non deve essersene mai accorto, se si è sentito in dovere di protestare per la “Queer Night” organizzata la scorsa settimana dal Regio di Parma per incoraggiare la libera espressione di sé: una serata che ha alzato la temperatura – a dire il vero più quella politica che quella culturale – intorno al Ballo in maschera che ha inaugurato il Festival Verdi venerdì scorso. E quindi anche la curiosità del pubblico, che non ha lasciato nemmeno un posto libero per le prossime tre repliche.
A parte il divertente manifesto con Verdi in gonnella, la causa prima dell’indignazione è ovviamente un progetto registico: quello del compianto Graham Vick, ereditato e completato da Jacopo Spirei, con cui si prometteva di portare in scena riflessioni teatral-musicali su identità sessuale e di genere, suggerite da uno dei titoli più ambigui e affascinanti del catalogo verdiano, presentato con libretto “svedese” (ma la musica continua a seguire l’edizione critica di Ilaria Narici), in cui il protagonista non è Riccardo governatore di Boston ma Gustavo III di Svezia, che in effetti era davvero omosessuale.
Alla fine, usciti da teatro, viene in mente il solito “molto rumore per nulla” shakespeariano. Un po’ perché il libretto di Antonio Somma – non l’originale rifiutato dalla censura di Napoli, bensì la seconda versione posta al vaglio della censura romana – non aggiunge granché rispetto a quello definitivo, e un po’ perché lo spettacolo si è rivelato assai più prudente di quanto si potesse pensare o sperare. Tanto che persino i contestatori di professione del Regio, dopo qualche protesta alla fine dell’introduzione, non hanno avuto ragione per riprendere il dissenso fino ai fischi finali di routine, il minimo che qualunque regista debba aspettarsi quando lavora a Parma.
Il motivo viene in parte spiegato dallo stesso Spirei nelle note di regia, quando specifica che lo spettacolo non è né di Vick né suo. In effetti il problema sembra proprio questo. L’involucro è Vick all’ennesima potenza: la scena rotante di Richard Hudson, vaga e astratta, dominata da un imponente monumento funebre e con un’apertura in alto per il coro, e i bei costumi che alternano un estroso settecento rivisitato che funzionerebbe benissimo in un qualunque locale di Berlino al puritano ottocento dei congiurati, di Amelia e di Anckastrom (Renato nella versione più nota). Ma l’impressione è che il contenuto fatichi a trovare una direzione precisa. Certo vengono suggerite alcune possibilità interessanti – il funerale del Re durante il preludio, la presenza minacciosa e costante della morte, l’antro di Ulrica vagamente Querelle de Brest, il crossdressing estremo di Oscar –, ma senza che vengano davvero misurate. Ne risulta una messinscena molto ben fatta, ma poco incisiva e tendente al decorativo.
Meglio allora la parte musicale, con Roberto Abbado forse non rapinoso ma solido, che punta all’omogeneità di questa partitura frastagliata e contraddittoria, in cui commedia e tragedia non si fondono ma restano giustapposte, come a guardarsi impertinenti senza voler cedere di un passo l’una nei confronti dell’altra. Così ogni enfasi drammatica ha il suo contraltare sardonico, vedi il quartetto “Ve’, se di notte qui colla sposa” che chiude il secondo atto dominato dal tristaniano duetto, risolto con fascino e coerenza dal direttore milanese. È come se quest’opera, tutta incentrata sul destino e dal pathos in apparenza insostenibile, si smorzasse continuamente: perché “niente è come sembra, niente è come appare” cantava Battiato, dando inconsapevolmente una bella definizione del termine queer.
Molto buono il cast. Il Riccardo, pardon Gustavo, di Piero Pretti è risolto con scioltezza e precisione. Anna Pirozzi è un’Amelia dalla voce generosa e duttile, assai meglio controllata che in passato. Amartuvshin Enkhbat ha una delle voci baritonali migliori in circolazione, ma ancora non trasmette a pieno il senso di quel che canta per fare il salto che meriterebbe. Anna Maria Chiuri, Ulrica, è forse la più musicale in scena, quella con la personalità più convincente persino nei passaggi che la mettono in difficoltà. Molto bene l’Oscar di Giuliana Gianfaldoni, così come i congiurati Fabrizio Beggi e Carlo Cigni.
Foto di Roberto Ricci, Teatro Regio di Parma