L’abbiamo fatta grossa ( e bene): il film di Verdone e Albanese deve più di qualcosa a Buster Keaton e lavora con maestria sulle regole della comicità
Il più ricco database cinematografico in rete ha una sezione dedicata alle “keywords”, le parole chiave che indicano il contenuto, il tema dei vari film. Digitando la parola “detective”, in pochi secondi il sito vi fornisce un elenco di 4.352 titoli. Il primo per popolarità, nemmeno tanto sorprendente, è quello della serie tv Sherlock, con Benedict Cumberbatch e Martin Freeman. Il più antico risulta essere The Jewel Thieves Run to Earth by Sexton Blake, oscuro (per noi) film britannico del 1910. Pensate quindi com’era vasta e globale la memoria collettiva alla quale ha attinto Carlo Verdone per L’abbiamo fatta grossa, nuovo film in cui l’attore-regista romano è un “occhio privato”, un investigatore assunto da un attore smemorato per incastrare la moglie fedifraga.
Ovviamente i detective comici sono meno di quelli seri, ma nel tempo le parodie non sono mancate: e ci piacerebbe affermare che la fonte di L’abbiamo fatta grossa sia Sherlocko investigatore sciocco, demenziale titolo italiano di un film con Jerry Lewis che in originale aveva un titolo assai più sobrio, It’s Only Money. In realtà la parodia migliore è anche uno dei più grandi capolavori della storia del cinema, un film molto più bello di tutti i 4.352 di cui sopra: Sherlock Jr. di e con Buster Keaton. Insomma, la tradizione non mancava, e siamo convinti che Carlo Verdone e Antonio Albanese, di fronte al nome di Buster Keaton, non negherebbero qualche debito.
I due comici, il romano e il milanese, hanno lavorato bene. Il film è molto divertente. È diverso dai film più recenti di Verdone, tutti comici ma al tempo stesso dolenti, imperniati su temi importanti quali la crisi economica, il rapporto genitori-figli, la difficoltà di vivere l’amore dopo i 40-50 anni, addirittura l’elaborazione del lutto (Sotto una buona stella inizia con la morte della moglie, e ha una trama che a raccontarla pare Bergman). Qui si gioca con gli stereotipi (l’attore in crisi, l’investigatore imbranato, i gangsters cattivi) e li si adopera, consapevolmente, per far ridere. Più che sviscerare i temi del film (c’è un finale, ovviamente da non raccontare, in cui la satira politica fa capolino) è utile analizzarne brevemente alcune scene per capire come Verdone e Albanese hanno lavorato.
La scena dell’intercettazione, ad esempio, è studiata benissimo. Verdone si traveste da pakistano per entrare nel ristorante dove la donna e il suo amante (nonché suo avvocato, quindi doppiamente odioso) sono seduti a un tavolo. Finge di essere un venditore di rose per appiccicare al tavolo una microspia. Tutto va bene, ma dopo che il finto paki è uscito la coppia cambia tavolo, e la microspia registra i dialoghi di altri due clienti dando il via alla sarabanda di equivoci sui quali il film si regge. La storia della comicità insegna: ci sono gags che mandano avanti la storia e gags che lavorano per accumulazione, arricchendo la storia di trovate buffe. La geniale scena dell’ospedale è del secondo tipo. Verdone e Albanese ci vanno per strappare alla vecchia zia del primo un’informazione: dov’è finito il cappotto dello zio morto, dove loro hanno nascosto il bottino? La scena si risolverebbe così, ma in ospedale i due incrociano altri due personaggi, una donna anziana che Verdone ha spaventato a inizio film e il killer che li ha minacciati, prima di essere casualmente abbattuto dal busto di un carabiniere che il detective tiene in casa. L’incontro con questi due personaggi minori è un surplus, che però strappa – almeno per noi – le risate più convincenti del film.
Verdone e Albanese hanno lavorato come i grandi comici del muto. Anche l’accuratezza e la buffoneria di alcune figure di contorno (la cantante lirica armena Anna Kasyan, il cattivissimo Massimo Popolizio, la zietta matta intermittente Virginia da Brescia) testimoniano l’altezza del magistero. L’abbiamo fatta grossa, a raccontarlo, è un noir; a vederlo, è un film comico senza ritegno. Buon divertimento.