Il memoir ibrido di Veronica Raimo: la gemmazione (e la formazione) di un “io” che si affranca attraverso la vergogna. Già vincitore dello Strega Giovani, “Niente di vero”, pubblicato da Einaudi, è tra i sette finalisti dell’edizione 2022 del Premio Strega.
Niente di vero è il quinto libro di Veronica Raimo, ma per il tipo di accoglienza che sta ricevendo, come osserva l’autrice stessa, sembrerebbe quasi trattarsi di un esordio.
Raimo è anche scrittrice di racconti e ha firmato oltre a una sceneggiatura per il cinema (Bella addormentata di Marco Bellocchio), alcuni monologhi teatrali e diverse traduzioni dall’angloamericano. Come traduttrice negli ultimi anni si è confrontata con testi fondamentali di autrici femministe visionarie come U.K. Leguin e Octavia E. Butler. Sempre nell’ambito della fantascienza speculativa ha pubblicato anche una nuova traduzione del capolavoro di R. Bradbury, Cronache Marziane, oltre che del primo romanzo di F. Scott Fitzgerald, Di qua dal paradiso.
1. Un memoir ibrido
Questa pratica molteplice della scrittura (e di quel tipo particolare di scrittura che è la traduzione letteraria) si ritrova anche in Niente di vero, che più che essere un romanzo d’ispirazione autobiografica (come potrebbe sembrare a prima vista) è un testo che si apparenta a diversi generi e antecedenti letterari senza coincidere in definitiva con nessuno di essi. Complice anche, come si dirà meglio dopo, il suo metodo di composizione, dato che è stato costruito “geneticamente” a partire da frammenti scritti in momenti diversi.
In Niente di vero la materia principale del racconto in prima persona, incentrato sulla vita famigliare, è costituita dai ricordi dell’infanzia e dell’adolescenza. La voce che dice “io” nel testo ha uno statuto ontologicamente instabile a partire dal primo contrassegno dell’individualità umana («Nessuno mi ha mai chiamata con il mio nome»), eppure è chiaramente, sin dal titolo (dove Vero sta anche per Veronica) un’emanazione dell’autrice.
Nonostante quindi la narrazione abbia come oggetto i ricordi personali, proprio nella piena consapevolezza dello statuto fondamentalmente ambiguo e ricostruttivo di ogni atto di memoria (specie se mediato dalla scrittura), non ci troviamo in presenza di un romanzo autobiografico e tantomeno di un romanzo di formazione. Non è nemmeno esattamente un romanzo di formazione “al contrario”, che mina e decostruisce (o «sabota dal suo interno» come suggerisce la presentazione dell’editore) il suo genere di riferimento.
Piuttosto Niente di vero (o meglio una buona parte del libro) si inserisce in maniera abbastanza diretta, pur rinnovandola in parte, nel solco della tradizione inaugurata da un preciso tipo di memoir novecentesco, di ascendenza francese. Penso a Memorie di una ragazza per bene di Simone de Beauvoir (ma anche a La Bastarda di Violette Leduc) dove la scrittura memoriale è rivolta contemporaneamente (proprio come in Niente di Vero) sia al contesto di origine con il suo portato relazionale (la famiglia, le amicizie infantili, gli incontri successivi) che alla ricostruzione della vocazione di una scrittrice.
In questo caso il progetto di narrazione memoriale è programmaticamente posto dall’autrice sotto una duplice insegna. Quella data dall’incipit è più che altro un’indicazione tonale. Sin dalle prime righe Raimo adotta un registro comico (già de Beauvoir rivendicava lo humor in quanto «qualità» troppo spesso «negata alle donne»), che il più delle volte si traduce in una tipo specifico di umorismo, più venato di amarezza che caustico.
Quando in una famiglia nasce uno scrittore, quella famiglia è finita, si dice. In realtà la famiglia se la caverà alla grande, come è sempre stato dall’alba dei tempi, mentre sarà lo scrittore a fare una brutta fine nel tentativo disperato di uccidere madri, padri e fratelli, per poi ritrovarseli inesorabilmente vivi.
D’altra parte Raimo pone la sua narrazione sotto l’egida di un sentimento preciso: la vergogna.
Diventi rossa per la rabbia, ti ammutolisci e cerchi di fartene una ragione. Devo in parte ringraziare Robert per il profondo rispetto che nutro verso la vergogna come strumento sociale.
La citazione posta in epigrafe è tratta significativamente non da una scrittrice come Annie Ernaux, che pure ha tanto riflettuto sulla matrice sociale della vergogna, ma da Leguin. Infatti per quanto la sua idea di memoria appaia vicina a quella della scrittrice francese, Raimo, che sembra aver ben presente il modello letterario dell’autoinchiesta di Ernaux, vi rinuncia (e anche la riflessione sociologica occupa uno spazio episodico e marginale):
Mi è venuta in mente l’idea di riprendere delle pagine dai diari e di inserirle in questo libro, così come ho pensato di inserire delle lettere (…), ma a parte l’intenzione estetica, non riuscivo a stabilirne il senso.
La narrazione procede quindi in un percorso almeno all’apparenza non del tutto controllato, come per un accumulo di frammenti nei quali il sentimento della vergogna e la cifra umoristica operano a diversi livelli. Come tipico della scrittura memoriale gli episodi, più o meno lunghi, ma mediamente riconducibili a un ideale stilistico di brevità, seguono un ordine solo in parte cronologico e si succedono l’un l’altro secondo diversi procedimenti associativi.
La famiglia che Raimo racconta è una famiglia piena di nevrosi e aspetti disfunzionali. Come tutte, verrebbe da dire, ma alcuni aspetti spiccano in quanto inconsueti per un «ceto medio con auto aziendale» del quadrante Nord Est di Roma. Siamo infatti in presenza di una famiglia che teme più di tutto «i germi e l’edonismo», ma nella quale la cultura ha un’importanza di primo piano. La madre incarna pienamente lo stereotipo della maternità apprensiva tipicamente peninsulare e mediterranea («l’unico principio morale che conosce è la sua ansia»), e, sempre in modo coerente a questo modello, non fa niente per nascondere la sua chiara predilezione per il figlio maschio. Ma quello che più colpisce di questa insegnante «sessuofobica», è che cura le sue forme depressive periodiche, giustificate come «emicranie», sdraiata al buio, in camera sua ascoltando Radio Tre. Mentre il padre, collerico e maniacalmente ossessionato dai germi, che fuori di casa è un apprezzato capo del personale e sindacalista, all’interno delle mura domestiche esercita un controllo dispotico sui figli, che tiene praticamente rinchiusi cercando una curiosa forma di compensazione nel costruire muri e tramezzi per aumentare il numero delle stanze in un appartamento di circa sessanta metri quadri.
Non è un caso che entrambi i figli, la protagonista e il fratello (descritto sin dall’inizio come un genio precoce) diventeranno scrittori. Non osando ribellarsi apertamente a un regime famigliare dove «La bugia e non l’evasione» è l’«unica fuga», l’interesse per la scrittura si manifesta come indispensabile antidoto al controllo genitoriale e alla noia. E sebbene Vero non sfugga del tutto ai cliché di un’adolescenza degli anni ’90 (lei e le sue amiche guardano sceneggiati come Beverly Hills), diversamente da molte sue coetanee ha in camera sua un poster di un attore come Klaus Kinski e a 15 anni il suo immaginario già risente di una frequentazione assidua dei capisaldi della cinematografia francese. Questa specificità “culturale” che rappresenta anche una forma non trascurabile di privilegio è uno dei dati sui quali la scrittura di Raimo evita, forse volutamente, di soffermarsi. Al contrario della Francia rurale di Ernaux (o di quella poi non tanto diversa, più di recente narrata da Edouard Louis) l’ingresso dell’autrice nel mondo delle lettere non si configura come “tradimento” di classe verso la famiglia di origine quanto come la realizzazione di un voto materno:
– Abbiamo Francesca al telefono, – annuncia la voce familiare di Radio 3 (…)
– Sono la mamma di Christian e Verika! A quel punto attaccano.
In questo universo segnato dal dopo Chernobyl, nel quale come «In ogni plot catastrofista che si rispetti, quando il mondo è infetto, l’unica cosa importante è preservare i legami di sangue: la famiglia», si affacciano anche le figure di nonni e parenti e gravitano come altrettante fonti di ossigeno le amicizie giovanili che irrompono con l’intuizione di configurazioni famigliari diverse e meno opprimenti.
2. La scelta del “comico”
Un primo elemento di freschezza di Niente di Vero è senz’altro dato dall’opzione per il “comico”. E in questo caso l’antecedente letterario assunto consapevolmente è Lessico Famigliare di Natalia Ginzburg (ma verrebbe in mente un altro altissimo esempio, purtroppo meno noto, il meraviglioso Althénopis di Fabrizia Ramondino). Si tratta di una scelta apertamente rivendicata dall’autrice, come ribadito in diverse interviste:
Ho scritto quelle che poi sarebbero rimaste le prime pagine del libro, e il tono era quello lì. In un certo senso ero sorpresa, ma poi mi sono resa conto che negli ultimi anni mi era capitato spesso di scrivere pezzi con un registro più comico o satirico, in generale erano pezzi o di non-fiction o monologhi per il teatro.
Ho pensato di voler provocare reazioni anche attraverso la fiction, e allora mi sono buttata per creare un mio nuovo linguaggio ed essere meno cervellotica, meno asettica.
L’accostamento alla stand up comedy e al personaggio di Fleabag di Phoebe Waller Bridge parrebbe giustificato. Ma se il carattere “divertente” del libro è stato instancabilmente sottolineato in articoli e recensioni, non è stato posto debitamente in luce come quest’intenzione si trasformi a tratti in una sorta di imperativo, di coazione a “far ridere” che può diventare anche controproducente. A volte viene da chiedersi insieme all’autrice o perché debba essere così «intimorita dalla solennità» ( e se la voce narrante dichiara di temere «la verità più della morte» tra le pagine più autentiche e coese restano quelle dedicate alla morte del padre, dove l’autrice si permette una scrittura meno elusiva, dolente). Alcune boutades (come quelle sui malintesi talenti da disegnatrice) sono reiterate fino ad esaurire del tutto la loro funzione. Il ricorso altrettanto sistematico ai tic linguistici e al frasario famigliare segnalano le impasses di una prosa che per rimanere su un registro quasi permanentemente “up” e brillante rinuncia a diverse occasioni di affondo. Una scrittura che è certamente al suo meglio nella rapidità, nel dettaglio epigrammatico, nel flash verbale istantaneo, ma nella quale a volte si avverte come un calo di tensione tra una “miniatura” e l’altra e si indovinano i punti di cucitura dei diversi materiali confluiti nel libro.
Mi rendo conto di quanto mi interessi sempre meno la trama. Mi interessa la scrittura, lo stile, il tono, e quando vedo accenni di trama mi annoio da morire. Mi pare di riconoscere subito lo schema che c’è dietro. La trama mi annoia nelle serie televisive, nei romanzi, nelle sceneggiature. Ho letto parecchi libri ibridi in questi anni, a cavallo tra saggistica e letteratura, dove di trama non ce n’era. C’è chi dice che il romanzo in Italia è morto, secondo me è vivo: sta solo cambiando forma
Però è anche un libro che raccoglie cose che avevo già scritto – dei pezzi di teatro, degli articoli – secondo un’etica del riciclo a cui tengo molto visto che non sono per niente una grafomane.
In questi casi il disinteresse manifestato dall’autrice per la trama si rivela più in forma di limite che di sperimentazione formale.
3. Appuntamento generazionale
L’originalità di Niente di Vero non risiede tanto quindi nella comicità né certo nelle tematiche, che sono come detto sopra quelle classiche del “memoir di una scrittrice”, che si autoritrae più o meno finzionalmente con il suo entourage famigliare.
Come ammette la stessa autrice, infatti, il tema dei legami famigliari appare – per ragioni non del tutto esplicite – ineludibile per chi scrive in lingua italiana:
Una mia amica qualche tempo fa mi ha chiesto: – Ma perché i romanzi italiani parlano tutti di legami famigliari? Visto che io stavo scrivendo questo libro ho elegantemente glissato.
A partire da questo dato di fatto (che è stato di recente registrato con un certo rammarico da Graziano Graziani sul fronte del teatro «Tutto sembra avvenire in quel presente eterno e astorico che è la famiglia italiana») Raimo però, anche per ragioni puramente anagrafiche, affronta il tema con una visione necessariamente diversa dagli esempi letterari che l’hanno preceduta e questo è uno degli autentici punti di interesse del libro.
Come sottolinea giustamente Domenico Starnone nella fascetta di presentazione del libro (con una frase che al netto di una certa esattezza drammatica suona anche come triste profezia per le lettrici): «All’inizio c’è la famiglia. Veronica Raimo racconta che, specialmente se si è figlie, quell’inizio combacia con la fine».
Anche se ho qualche anno in meno appartengo alla stessa generazione di Raimo, quella dei cosiddetti millennials e riconosco nel suo racconto il potenziale differenziale di uno suo sguardo come il suo in parte inedito. Nel passaggio dalla generazione dei nostri genitori a noi è senz’altro avvenuto uno scarto, ancora non del tutto indagato nella letteratura italiana, rispetto ai modelli ancora dominanti all’epoca della nostra infanzia. Una messa in discussione questa sì ineludibile di quell’ideale che chiamiamo “famiglia tradizionale”, che anche se può forse sembrarlo non è né una realtà eterna né tantomeno astorica; in questo risiede parte della novità e della freschezza su cui è fondato anche il successo editoriale del libro.
Se all’inizio insomma c’è ancora una volta la famiglia, cosa c’é dopo, oltre, aldilà? Questo Raimo non lo dice apertamente e sbaglierebbe chi si aspetta di trovare in Niente di Vero un’operazione di decostruzione di ampio respiro perché l’autrice sembra rinunciare di proposito a ogni assunto teorico mirando piuttosto a decostruire un particolare modello famiglia, la sua.
Alla vergogna si aggiunge significativamente un sentimento, che oggi appare molto più diffuso e significativo della vergogna, per quanto riguarda la generazione che oggi ha 30 e 40 anni, la “perplessità”:
Nella mia vita non vedo mai il bicchiere mezzo pieno. Nemmeno mezzo vuoto. Lo vedo sempre sul punto di rovesciarsi. Oppure non lo vedo proprio. Non c’é nessun bicchiere. Non c’è niente. Sono di fronte a un tavolino brutto e sopra il nulla. Potrebbe sparire anche il tavolino. Anzi è già sparito. Non mi resta l’assenza, ma la perplessità.
Come molte coetanee la narratrice non vuole figli, ha convissuto senza sposarsi e vive in modo apertamente problematico la coppia. Nell’unico luogo del testo in cui prova a proporre un proprio modello di relazione materna si tratta di un legame improvviso, elettivo, costruito non sul sangue ma sulla prossimità, sulla comunanza (ma anche su una forma onnipervasiva di «precarietà») e descritto per sottrazione:
(…) pensai che era quello il mio ideale di famiglia: una bambina e una ragazza che non si conoscevano e che non si sarebbe mai più riviste.
Come nei romanzi di Sally Rooney, il modello di relazione preso a riferimento anche da Raimo sembra essere quello delle amicizie giovanili e infatti Niente di Vero è dedicato proprio alle amiche, anche perdute, nominate nel testo (Cecilia, Glenda e Milena).
E come alcune protagoniste di Rooney, Veronica è anche affetta da una specie di peculiare difetto di esistenza, che comprende il fatto di sentirsi “sfocata” sia interiormente che nell’immagine che si restituisce al mondo. Oltre al fatto che nessuno la chiama con il suo vero nome, tutti, compresa sua madre la scambiano spesso per qualcun altro («Purtroppo è Vero che cambia faccia ad ogni foto»). È come se avesse lineamenti mobili, instabili, che non la rendono distinta, riconoscibile («Ma sì dai facciamo che sono io»). O come se il suo modo di sopravvivere nel suo habitat, come quello di certi animali, si realizzi tramite una sorta di camouflage. “Niente di vero” è un titolo più sinistro se letto in questa luce. Dalla prima cosa che ha scritto, un falso diario per depistare le ansie della madre, la scrittura per Vero non è altro che il rovescio di questa “poca esistenza”, una passione per l’impostura (L’età dell’impostura era anche il titolo di lavoro scelto da Raimo, poi scartato per il rischio di apparire pretenzioso).
All’incertezza nominale, fisionomica, affettiva, abitativa (da adulta la protagonista sceglie di vivere un po’ a Roma e un po’ a Berlino, dove risiede per scelta in case lasciate libere da altri) si somma anche quella lavorativa. Mentre si procede verso il presente la narrazione vira da una forma vicina al memoir a qualcosa di più simile all’autofiction: si fanno infatti più frequenti i riferimenti metaletterari al lavoro editoriale, del quale si raccontano i risvolti meno edificanti.
Chiave della narrazione di sé è proprio l’atteggiamento rinunciatario (e anche questo aspetto di presta a considerazioni più ampie di carattere generazionale):
Perché ostinarsi a fare qualsiasi cosa? “Vegetare e basta”.
Anche per quanto riguarda il racconto della sua vocazione di scrittrice Raimo sembra fare di tutto per convincerci che la sua che la sua musa è tardiva, svogliata, intermittente, insidiata da «una pigrizia più tenace di ogni possibile affrancamento»:
Non ho mai avuto un’immagine di me nel futuro che non fosse completamente velleitaria. Ho sempre avuto un’ambizione posticcia e approssimativa. Coltivare un sogno, alla lunga, è noioso quanto coltivare un orto.
A un certo punto la narratrice incontra un giovane poeta un po’ dandy a Berlino. Quello che precisamente l’attrae, che ritrova in sua compagnia è proprio «la vita prima di ogni scelta, prima di ogni esordio, prima di ogni parere scettico dell’ufficio marketing (…)».
Interrogata in proposito l’autrice ammette come questo vagheggiamento di un ritorno indietro sia radicato in una forma di nostalgia «per un’età indefinita della vita»:
Non è soltanto il rimpianto per la giovinezza, è proprio il rimpianto per quella forma di indeterminatezza. L’ho amata molto e la amo ancora.
Mentre invece l’incertezza data dalla precarietà dell’età adulta appare sotto altri aspetti a tutti gli effetti come un fardello:
(…) il non avere una sola casa è un concetto strano per i nostri genitori e molto più vicino a chi è arrivato dopo di noi. Noi abbiamo provato a capirlo, a vivere nel mondo in maniera incostante. La precarietà sembra dirti però che non hai posto nella vita, ti mette addosso il rifiuto, diventi un non.
Ma la contraddizione tra un’indeterminatezza rincorsa come nostalgia del possibile e una precarietà imposta che è uno dei nodi autentici del nostro presente, è anche uno, il più importante degli appuntamenti mancati del libro, che date le sue premesse avrebbe potuto essere qualcosa di più urgente e necessario di quello che è: un buon libro, ben scritto, a partire da un punto di vista che mancava, ma che partendo dalla narrazione di sé non arriva qui del tutto (ma forse non aspira nemmeno) a raccontare questo tempo, a farsi pienamente mondo.
C’era una spiga che era cresciuta in un bosco.
– E come è successo, mi chiedeva mio nonno?
– Non ne ho idea.
La storia finiva lì. A mio nonno stava bene. A me pure.