Non sentire il dolore del proprio corpo è un privilegio di cui spesso ci dimentichiamo. In due racconti ambientati nella Russia stalinista, Victor Serge legge la sofferenza di un’epoca e anticipa lucidamente riflessioni sulla violenza della coercizione, soprattutto di quella travestita da ordine sociale. Così, in un dittico che giustappone le labili pareti di un edificio di coabitazione forzata e le stanze di un manicomio, il lettore fa esperienza di una impressionante serie di dolori, carnali e spirituali. E lì dove è più oscuro il male, maggiore risulta la potenza della pietà umana.
“Come le disgrazie, un tetto avvicina gli uomini, senza unirli.”
La lettura ha il potere di avvicinarci ad altri mondi. Ci mette nelle condizioni di provare emozioni che non sono le nostre. Ci rende partecipi di vite che non avremmo mai immaginato di poter vivere.
E incominciando a leggere il Vicolo di San Barnaba, il primo dei due racconti firmati da Victor Serge in Anni senza perdono, pubblicato da Edizioni Paginauno per la collana “Bosco di Latte”, se ne ha ancora una volta la conferma: non è più il 2022, ma la Russia degli anni Trenta; in poche righe siamo lì, in un angolo di Leningrado, a spiare dal buco della serratura di una casa popolare le vicende di alcuni personaggi che presto impareremo a conoscere.
Anissia sta morendo. Anissia, la vecchia che occupa la stanza più bella del kommunalki, uno degli edifici di coabitazione forzata voluti da Stalin, che all’epoca contenevano diverse famiglie.
Anissia non si è alzata questa mattina. Forse è la volta buona che tira le cuoia, e libera la stanza. Ssst! Basta un bisbiglio tra Andrevna e Grucha, un’intesa di sguardi spaventati ed eccitati, e il sussurro si trasforma in un segreto. Un segreto da tenersi stretto: che non si sappia tra gli altri condomini e soprattutto che non arrivi alle orecchie della dottoressa Anna Kurlova, che sta poco più avanti sul corridoio.
Ma è già troppo tardi.
In un edificio fatiscente sorretto da pareti di cartongesso, con soltanto deboli paraventi a separare le anime e i corpi delle persone, è difficile riuscire a tenere nascosto qualcosa di così grosso.
In un soffio, lo sanno Lisa Marlena e Pilenko. Un finto, forzato, noncurante colpo di tosse ed è chiaro che hanno sentito il sussurro dalla stanza accanto.
E non ci vorrà molto prima che la voce arrivi fino ad Adam Paff, quell’eccentrico giornalista affettato, e a Babine, membro della polizia segreta – lui sì che se la passa bene, con tutto il ben di dio di derrate extra che riesce a recuperare, “conserve, vere aringhe di Kereth, burro da dodici rubli”.
Babine ha delle amicizie, ha una posizione privilegiata. Vorrebbe destinare la stanza a un vecchio amico dal viso sfregiato. Ma non ha fatto i conti con le ambizioni di Vassiltchuch, abitante del canale fognario che dalle viscere della città reclama con determinazione disperata il diritto a mettere i suoi figli in salvo dal fetore nauseabondo in cui sono costretti a sopravvivere.
La competizione è spietata. Attraversa le anime e le stanze, contagia tutte le classi sociali che improvvisamente si trovano ad avere uno scopo, una speranza, fragile quanto il respiro di Anissia.
Il Vicolo di San Barnaba è un luogo che si imprime immediatamente nell’immaginazione per merito della vivida scrittura di Victor Serge, che con le sue parole sa quali sensi sollecitare. I corpi dei protagonisti sono al centro del quadro espressionista e grottesco che l’autore dipinge, con termini esatti e un sarcasmo pungente.
Con quei corpi “modellati per lo più da un pollice enorme e brutale”, la dottoressa Kurlova è costretta a misurarsi ogni giorno. Il regolamento dell’ambulatorio gliene assegna otto all’ora. A ciascuno, può dedicare non più di 8 minuti, troppo pochi per le cure che meriterebbero.
“Il rachitismo deformava le ossa, gli alimenti pesanti, a basso contenuto di calcio facevano gonfiare i ventri, gli aborti e le infezioni ledevano gli uteri, l’aria malsana faceva appassire i polmoni, le degenerazioni alcoliche, sifilitiche e fameliche comparivano nelle asimmetrie dei volti, nelle malformazioni delle orecchie, nelle atrofie o iperestesie dei riflessi. Corpi in apparenza sani, nascondevano ferite segrete.”
Tra le pagine di Serge, più la classe sociale è bassa e la vita è misera, più il corpo si fa presente. Con le sue storture, i suoi bisogni, la sua sensibilità, si mette tra l’anima e il mondo e non lascia spazio ad altro che alle sue necessità.
Il corpo, Andrevna Juralev, lo accusa tutto nelle mani:
“Ma la moglie di Makar Juralev, carrettiere, che chiamano familiarmente Andrevna, formica in questo formicaio, che cosa vede della trasformazione del mondo? (…) Lei potrebbe volentieri convenire: è un uomo colto, quel signore, un grande scrittore e io non sono che una povera donna ignorante. Io posso dire una cosa soltanto, cittadino: che ho pagato il sapone al mercato quattro rubli alla libbra e che questo sapone non fa schiuma, ma brucia le mani, vedete come sono arrossate, le mie mani, e che questo sapone rovina la biancheria; ho contato parecchi buchi nuovi sui nostri vecchi stracci.”
In quegli anni, come oggi, è una condizione privilegiata quella di non sentire il proprio corpo. Di vivere semplicemente come se questo non ci fosse. Esserne liberi, dimenticando ameno per un po’ la propria miseria.
In questo coro di solitudine c’è poco spazio per la compassione, di cui forse proprio Andrevna e Kurlova sono l’unico barlume: quando sole, nel cuore della notte, si trovano per un attimo insieme a vegliare fianco a fianco su Anissia, trafitte da un raggio di stella.
Quell’intreccio di avidità e umanità, Victor Serge lo conosce alla perfezione, in tutte le sue pieghe. Il suo pseudonimo non deve ingannare. Nasce come Viktor L’vovic Kibal’cic, a Bruxelles, da genitori emigrati da San Pietroburgo, e fin da bambino sviluppa una vera e propria necessità politica. La sua vita è divisa tra Parigi e Pietrogrado, poi Leningrado. Tra la libertà e il carcere. Tra gli iniziali entusiasmi per gli ideali bolscevichi e l’amarezza nel vederli traditi dalla controrivoluzione di Stalin.
Il pugno di ferro dell’autoritarismo è evidente ne L’ospedale di Leningrado, il secondo brevissimo racconto di Anni senza perdono, in cui si può intravedere una sorta di manifesto politico-filosofico di Serge.
Qui, in un manicomio, vengono rinchiusi oppositori della rivoluzione, intellettuali e venditori di contrabbando. Qui, l’autore stesso si fa personaggio e nei suoi panni di scrittore fa capolino nella storia. Nell’ospedale incontra Iuralev, un detenuto intellettuale, un caso molto grave di C.R., controrivoluzionario – inutile aggiungere altro alla diagnosi. Ha vissuto trent’anni vendendo libri e giornali, ora sequestratigli dalle autorità.
Eppure, quest’uomo solo, in un ospedale psichiatrico, non ha perso il suo senno. Tutt’altro. La lucidità delle considerazioni di Iuralev riaccende un po’ di speranza. Quella dell’intellettuale che emancipandosi dalla paura, allo strenuo delle sue forze, costretto in un manicomio, continua per necessità a cercare la verità, persino nel “cuore della notte più tenebrosa”.
E forse, è proprio quella necessità ciò che ci avvicina. Che avvicina il detenuto allo scrittore. E l’autore al lettore.