Per il cinema americano la peggior estate per incassi dal ‘97.12 sequel, troppi e deludenti? Pochi personaggi femminili? Mercato frammentato? Ma la ragione è…
Dove nasce la crisi di idee e di pubblico del cinema kolossal americano, dopo la peggior estate al box office dal 1997 (-30% a luglio, mese chiave delle stagioni Usa, rispetto al 2013)? Tante le cause: la prudenza infinita dei dirigenti degli Studi, sempre meno produttori e sempre più manager; i troppi cervelli e facce in fuga verso le serie tv, accattivanti e avvantaggiate dalla comoda fruizione domestica; i pochi personaggi femminili, con inevitabile disaffezione della fetta più larga del pubblico potenziale. E poi la frammentazione del mercato, che offre tv generaliste e mirate, on demand e netflix, visioni su computer e ogni genere di tablet. Qualcuno accusa i produttori americani di inseguire troppo il mercato internazionale, da cui proviene il 70% dei profitti, favorendo un generico gusto globale, e c’è chi se la prende con i social network, permeati da quel sadismo della stroncatura che dilaga per reazione al bon ton di riviste e giornali.
Qualcosa di più profondo sembra però minare alla base l’industria del cinema, almeno come l’abbiamo vista nel suo primo secolo di vita, mettendo in questione soprattutto i prodotti più costosi e da grandi numeri. Qualcosa che è accaduto in tempi molto recenti, di fatto negli ultimi due anni, e che si chiama sorpasso nel ritorno economico (e di conseguenza negli investimenti e negli apporti creativi) del mercato dei videogiochi.
Il mercato dei games viaggia sugli 80 miliardi di dollari l’anno (oltre 20 solo negli Usa), superando non solo quello del cinema, ma anche quello della musica. Campionati di giochi on line hanno oggi sponsor colossali come Coca Cola e American Express, i critici di videogiochi sono star assolute presso il pubblico dei loro coetanei (13-17 anni), e chi vince un torneo arriva a portarsi a casa anche 500mila dollari. L’industria, l’indotto relativo cresce rapidamente: arriva a 970milioni di dollari il profitto di Twitch, un servizio di streaming video, di recente acquisito da Amazon, usato dai giocatori per sfidarsi a distanza. Dal 2005 a oggi, 1640 video hanno avuto in tutto 91 milioni di visite, 56mila ciascuno.
Il business dei videogames sposta capitali ingenti, cervelli, professionalità, specializzazioni e industrie di effetti speciali, attirati dal nuovo Eldorado tecnologico, che resta integrato con l’industria del cinema, ma succhiandone la linfa vitale. Tutte le major lavorano su entrambi i fronti, cercando di ottimizzare idee e capitali grazie allo sdoppiamento di ogni spunto, ambientazione, traccia narrativa. Chi sembra prevalere però è il mercato dei games. Come mai? Il lavoro vero di chi scrive un videogioco, e di chi lo arricchisce di effetti speciali e infinite possibilità, è renderlo in ogni momento più mutevole, dando al giocatore, e quindi ai personaggi, il maggior numero di opzioni, e moltiplicando le varianti del gioco, sia esso una gara di sci o l’invasione degli alieni, il salvataggio dei cuccioli o una strage di mafia. Chi scrive film, invece, costruisce una storia magari lunga complessa, con tanti accadimenti e personaggi, e situazioni a volte complicate ma in cui, in un preciso momento, una cosa sola accade a ogni singolo personaggio.
In un videogioco, di cose diverse ne succedono poche, ma sono pressocché infinite le varianti nell’unità di tempo. Così, se lo stesso tema deve servire da base per due prodotti destinati a mercati che vanno narrativamente in direzioni quasi opposte, e quello che “tira” di più è quello dei games, è inevitabile che l’industria si orienti verso prodotti semplici nella struttura tematica, e seriali e interattivi nelle loro componenti essenziali. Chi gioca a un videogame vuole trovare gli stessi protagonisti e analoghi schemi di gioco: godendo molto dei particolari, come la verosimiglianza dei personaggi ispirati a modelli reali (gli eroi sportivi ad esempio), l’efficacia del disegno e degli effetti, la fruibilità dell’angolazione, la praticità dell’uso degli strumenti che ha in mano (auto, armi, gambe o altro). Interessano assai meno la fantasia, l’originalità del racconto, che sono la base di un film ma in un videogioco possono risultare quasi dispersivi (e assai dispendiosi, ogni secondo costa molto di più di un analogo tempo di un film). Non si tratta della polemica verso la banalità (non sempre vera) delle narrazioni da game. Il tema è dove si dirigono i grandi capitali partendo da progetti a doppio binario, ma ormai di diversa redditività.
Se Grand Theft Auto o Proevolution Soccer crescono in perfezione e incassi dalla prima alla sesta edizione, non si vede perché l’evoluzione tecnologica non debba garantire analogo successo ai sequel di Una notte da leoni, L’era glaciale, Transformers o Edge of Tomorrow. Ma l’iterazione ripetuta all’infinito, il meccanismo rassicurante (di derivazione psico-televisiva) del ritorno degli stessi personaggi, di situazioni narrative analoghe, vincente nei games, in sala si scontra con l’impulso più forte nello spettatore di cinema, la fascinazione dell’imprevisto e del nuovo, che è l’essenza del rapporto fisico e psicologico con il grande schermo.
Se si va al cinema per essere stupiti, 12 sequel in un’estate (quella del 2014) sono un record negativo, dall’esito infatti deludente. Nell’universo dei videogame la ripetizione è al servizio del protagonismo attivo di chi gioca; il cinema al contrario deve offrire storie uniche, nuovi attori o attrici che sconvolgano i giochi, belli, bravi e imprevedibili, più del migliore degli effetti speciali. Perché al seriale, al già visto, la fantasia si ribella.