Roberto Rustioni fa spesso i conti con Čechov. Con «Villa Dolorosa» continua a farlo, ispirando alle Sorelle più famose della drammaturgia di ogni tempo…
La borghesia, da quando è entrata in società con il suo status di classe nuova, non cambia mai. Ne cambia la raffigurazione, ma il suo senso di statica esistenza permane e pervade i suoi esponenti. I Russi, Čechov come Tolstoj (anche lui ripreso da Ola Cavagna e messo in scena in questi giorni al Teatro Franco Parenti con Ivan Il’ic), hanno spesso avuto l’abilità di cogliere con esattezza la vana ricerca borghese non solo del significato della vita, ma della vita stessa.
Roberto Rustioni sa come affrontare Cechov, lo ha già fatto in precedenza, nonostante di Čechov oggi rimangano solo gli echi nella saggia riscrittura di Rebekka Kricheldorf, giovane drammaturga berlinese che fa parlare i personaggi di Villa dolorosa quanto Anton Čechov aveva parlato attraverso le Tre sorelle.
Regista e attori (oltre allo stesso Rustioni, Federica Santoro, Emilia Scarpati Fanetti, Eva Cambiale, Carolina Cametti, Gabriele Portoghese) rendono viva e reale una vicenda che alla borghesia ha rubato tutto: corpo e mentalità, abbandono e disperazione. Sono tutti eccezionalmente bravi gli interpreti di questa meta rappresentazione: i personaggi stessi mettono in scena la propria esistenza, con cruda rassegnazione, e contemporaneamente con grande ironia, sostenuta da ritmi di critica sociale brechtiani. Tre sorelle, tre anni di vita, tre compleanni: nessuna esistenza che valga la pena di essere vissuta. È un dramma che si ripete, anno dopo anno, con la crescita e l’invecchiamento, delle ragazze e delle loro abitudini: non c’è via di fuga dalla loro villa, dolorosa quanto la routine che ad essa le tiene legate. Sono condannate alla mancanza di senso, a una vita che nemmeno le loro velleità sono in grado di salvare.
La scena, diversamente dall’approccio primonovecentesco scelto dall’autore russo, che fece dirigere le sue ultime opere a Stanislavskij, richiama solo vagamente il salotto di un’abitazione borghese moderna: potrebbe essere un salone qualsiasi, di quei primi anni del Novecento come di oggi. Certo, gli impieghi dei protagonisti, il telefono cellulare, gli abiti riferiscono la vicenda all’attualità, ma i caratteri dei personaggi non sono cambiati da allora: l’ignavia di Irina, la codardia di Mascia, la caparbietà di Olga riflettono i vizi formali di quella stessa classe sociale nata nella Russia zarista e mai davvero emancipatasi dalla sua condizione di aristocrazia incompiuta.
Il testo fluisce con grande naturalezza grazie all’interpretazione di Rustioni, che l’ha reso straordinariamente nostro, incredibilmente vicino a tutto il pubblico, che ne ride amaramente, pur costretto a riflettere. Forse diversamente dalla realtà, a teatro è rimasta la possibilità di discutere anche dentro una villa, in famiglia, e di comunicare attraverso le parole invece che attraverso i silenzi. Sono parole sferzanti, che rimbalzano come palline da tennis in un campo da gioco, ma che, come dal campo sterrato, da questa villa non usciranno mai. Non c’è Mosca, non c’è vita per queste tre sorelle.
Immagini di Manuela Giusto