Sbarca su Sky Atlantic l’attesissima fiction televisiva sulla nascita del rock and roll, frutto della collaborazione tra Scorsese e Mick Jagger
L’immaginario di Martin Scorsese – New York dei bassifondi, boss mafiosi, ascesa di arrampicatori sociali italo-americani, antieroi declinati nello schema dell’eroe della tragedia greca – è la storia del cinema americano, o quanto meno, ne plasma una fetta consistente.
E Mick Jagger – leader dei Rolling Stones, icona della nascita del rock and roll anni ’60, quello sporco, arrabbiato, drogato e devoto alla promiscuità sessuale – è il perfetto “partner in crime” di Scorsese per confezionare la vera storia della musica degli anni ’70, in particolare quella della label American Century Records, della sua nascita e del suo declino, aiutato dalla mano di Terence Winter (già autore ed executive producer de I Soprano, Boardwalk Empire, The Wolf of Wall Street), uno che di vicende in bilico fra criminalità e genialità se ne intende.
Il risultato di questa collaborazione, è Vinyl, la serie tv sulla musica degli anni ’70, andata in onda per la prima volta il 15 febbraio su Sky Atlantic. Un pilot di ben un’ora e mezza visibile in contemporanea negli USA e in Italia, seguito dalla prima vera puntata, trasmessa il lunedì successivo.
Le aspettative di un’appassionata di musica, fin da quando le hanno messo in mano una chitarra elettrica e insegnato il riff di Smoke on The Water, e di cinema, da quando suo padre le faceva vedere le videocassette dei “classici” collezionate con l’Unità, erano altissime.
Nel momento della visione, gli elementi che speravo di trovare c’erano tutti, miscelati in un buon prodotto capace di tenerti incollata sullo schermo di un Macintosh.
A cominciare dai personaggi. Richie Finestra (Bobby Cannavale), l’italo-americano che passa dal bancone del bar al talent scouting di artisti, l’eroe da sobborgo tanto caro all’estetica di Scorsese, è il fondatore dell’American Century Records, quella che chiude un contratto con i Led Zeppelin, per intenderci. Il discografico ha creato un impero economico e da bravo self made man, non ha rinunciato alle tentazioni del potere: macchina di lusso, casa con giardino nel Connecticut e moglie al seguito. Si tratta di Devon, splendida ex Factory Girl (Olivia Wilde), accanita consumatrice di cocaina su ogni superficie orizzontale disponibile.
L’italo-americano lo conosciamo quando la “polvere di stelle” è volata via – o è sparita in qualche mucosa nasale – davanti a un tavolo di discussione con i membri della Polygram, l’etichetta tedesca a cui il nostro cerca di vendere l’American Century Records, per evitare la bancarotta.
Da lì, la storia fa un passo indietro per raccontare come Richie è riuscito a ottenere tutto, e ad essere sul punto di perderlo. Scena dopo scena entriamo nel suo mondo, in quei mitici 70s che tutti crediamo di aver vissuto, anche se siamo nati nel decennio successivo: la musica, va da sé, è protagonista, dal rock and roll al nascente punk fino all’hip hop. Altrettanto importanti, sono i luoghi in cui cresce e nasce il fenomeno rock: dai club grandi come sottoscala a quelli leggendari, dove si consumano i cliché che hanno caratterizzato quella stagione artistica, ovvero il sesso e la droga.
Fra i personaggi che calcano la scena sin da subito, c’è Jamie C.Vine (Juno Temple), l’unica impiegata donna della label, un’aspirante talent scout che non disdegna la vita da groupie: un personaggio che incuriosisce su tutti, forse perché più di tutti incarna il sogno del rock and roll, che noi spettatori osserviamo attraverso le lenti dell’ex timida ragazza di provincia che prova a farsi strada in un mondo che era (ed è) maschile.
La sceneggiatura e gli aspetti tecnici curati quanto quelli di un prodotto da grande schermo – su tutti, la fotografia – aiutano alla riuscita complessiva delle prime due puntate. In definitiva, Vinyl è una serie ben strutturata, anche se non perfetta: l’immaginario che costruisce, a prima vista, sembra essere esattamente come ce lo aspettiamo. Il risultato finale, una vaga sensazione di “già visto”, non era forse evitabile.
Gli anni Settanta sono profondamente radicati nel nostro presente, dalla musica all’eredità dell’abbigliamento a certi modus operandi della discografia, per citare solo alcuni aspetti. A quel decennio si guarda come a un modello inarrivabile, e la sua musica è punto di partenza e di arrivo di molte band contemporanee.
Perché allora guardare Vinyl? Non solo per immergerci in un’atmosfera che ci è familiare e che vorremmo rivivere, ma per capire i meccanismi dell’industria musicale nel momento di suo massimo splendore, attraverso le vicende personali di alcuni personaggi archetipici dell’epoca.
Ora non resta che aspettare il seguito: come un vinile, non possiamo giudicarlo da un solo lato.