Tre giorni al Base di Milano, ‘La violenza di genere ha i giorni contati’, per la Casa di Accoglienza delle donne maltrattate di Milano che da più di 30 anni lavora con le donne vittime di violenza all’insegna della libertà femminile. Da Lella Costa a Tito Boeri, da Michela Murgia ad Arianna Censi e Manuela Ulivi, tante voci e tanti sguardi per ragionare di violenza economica, comunicazione e metodo di lavoro dei centri
Tre giorni, al Base di Milano, per cambiare lo sguardo sulla violenza di genere. Una riflessione a più voci – La violenza di genere ha i giorni contati , il titolo – organizzata dalla Casa di accoglienza delle donne maltrattate di Milano per mettere a fuoco i cambiamenti culturali indispensabili a contrastare i femminicidi, l’unica forma di omicidio che purtroppo non conosce tregua (106 nei primi 10 mesi del 2018, dati Eures) e quel pesante iceberg che va sotto il nome di violenza maschile contro le donne.
«Potremmo parlare di violenza, ma parliamo di libertà», scrivono le donne della Cadmi, uno dei primi centri antiviolenza italiani che dal 1986 offre sostegno pratico e psicologico alle donne vittime di violenza. Trentatré anni passati a cercare di sostituire la parola violenza con la parola libertà, un’operazione necessaria a svelare gli stereotipi della nostra cultura, la maggiore responsabile della violenza di genere. E così, dopo oltre decenni di lavoro e pratica politica, la parola libertà è diventa il centro di una riflessione che, dal 21 al 23 maggio, ha coinvolto la politica, la comunicazione, l’economia, il cinema e l’arte, fino alla letteratura mitologica in cui si possono rintracciare le originali narrazioni della violenza. Sul palco Michela Murgia, Lella Costa, Alina Marazzi, Tito Boeri, Lucia Annibali e tanti altri, un coro di voci che ha messo a fuoco e reso pubblico il carattere per nulla innocuo di una cultura che tragicamente resiste ai cambiamenti della società.
«Il primo passo – racconta Stefania Rossi, responsabile della comunicazione di Cadmi – è stato ragionare sui temi che non vengono toccati quando si parla di violenza maschile contro le donne. La violenza economica è ancora troppo poco riconosciuta, sulla comunicazione non c’è bisogno di aggiungere nulla perché è sotto gli occhi di tutte e tutti, e la libertà ce la vogliono, in diversi modi, togliere. Noi di Cadmi invece la usiamo come metodo di lavoro e sappiamo bene da che parte si prende la violenza di genere. Volevamo raggiungere target svariati e credo che il mix di pubblico fisico e virtuale ci abbia dato ragione. La scelta degli ospiti è stata mirata per parlare dei vari temi da un punto di vista altro».
La prima giornata dell’happening è stata dedicata alla libertà economica. Lella Costa ha aperto la discussione insieme alla vicesindaca della città metropolitana Arianna Censi, e alla presidente di Cadmi, Manuela Ulivi: da loro un’analisi profonda sui ruoli e le metodologie che le donne portano avanti nella sfera pubblica e nell’esercizio del potere. «La stragrande maggioranza delle donne – ha osservato Arianna Censi – ha nel suo staff persone molto competenti, per alcuni versi più competenti di lei, perché le donne non cercano la legittimazione del potere ma la discussione. Questo cambia il mondo, per questo noi dobbiamo imporre un nuovo metodo di lavoro».
La seconda giornata, incentrata sulla comunicazione, ha coinvolto gli studenti delle scuole di comunicazione del Politecnico e del Naba, ai quali è stata affidata l’ideazione di una nuova campagna Cadmi sotto la supervisione del creativo Paolo Iabichino. Un brief difficile per ragazzi neanche trentenni; realizzare una campagna dedicata alle vittime della violenza di genere senza esprimere alcuna forma di vittimismo.
«Ho visto stupore – racconta Paolo Iabichino – di fronte ai dati, di fronte alle ricerche, di fronte alle informazioni che Cadmi rilascia rispetto a questi temi, uno stupore che è diventato in alcuni casi una campagna, nel senso che loro sono riusciti a mettere in pagina questa incredulità… Sono temi che gli studenti conoscevano in maniera stereotipata e che Cadmi ha portato in una versione nuova, più adulta, più autentica e a quella si sono affidati per produrre i loro lavori».
La campagna vincitrice, una perfetta sintesi di art direction e copywriting, trasferisce sulla pagina con grande efficacia la condizione in cui vivono le donne vittime di violenza, lacerata la paura del cambiamento e una grande illusione che sostiene quella paura: In fondo mi ama. Una comunicazione che mette tristemente in scena alcune narrazioni giornalistiche che il Manifesto di Venezia, siglato a novembre del 2017 e che riguarda la corretta informazione sulla violenza di genere, cerca di sanzionare. «Il diritto di cronaca non può trasformarsi in un abuso… Ogni giornalista è tenuto al rispetto della verità sostanziale dei fatti ed è prioritario evitare l’uso di termini fuorvianti come amore, raptus, follia, gelosia e passione” accostati al crimine».
La libertà come metodo è stato infine il tema della terza giornata dell’happening del Base, perché solo la libertà permette la relazione e l’ascolto di cui le donne vittime di violenza hanno disperatamente bisogno.
«Io non sono Lei – ha raccontato dal palco la coordinatrice della Cadmi Cristina Carelli – certamente lei ha vissuto quella particolare storia di violenza, ma la sua storia di donna dice molto di me e nel suo percorso di uscita dalla violenza non c’è solamente una vita che cambia, ci sono io e ci sono tutte le donne, c’è una donna che riconquista la libertà fin dal primo incontro con un’altra donna che l’accoglie, c’è un fatto politico». Una metodologia di accoglienza che il Cadmi sintetizza in due passaggi fondamentali: segretezza e anonimato e assenza di giudizio.
Un metodo, quello di Cadmi, che inizia a svilupparsi dieci anni prima della nuova legge sulla violenza sessuale, quando ancora il diritto italiano definiva lo stupro un reato contro la morale pubblica e non contro la persona. Era il 1996 e il dato storico appare ancora oggi strabiliante se si considera che il resto della cultura, da quella tecnologica a quella politica, marciava con tutto un altro ritmo. Qualche esempio? In Giappone nel 1996 veniva lanciato il Nintendo, Fidel Castro nello stesso anno faceva la sua prima, storica visita in Vaticano, mente, nel nostro Paese le donne non avevano ancora ottenuto lo status giuridico di persone.
La consapevolezza dei ritardi e degli agguati alla libertà femminile, nei tre giorni dell’happening, non ha mai dato mai adito a qualsivoglia forma di vittimismo. Anzi. La violenza si è trasformata in libertà, la fragilità in forza, la paura in scelta, l’oppressione in indipendenza e le vittime in donne. Un percorso che si è nutrito di analisi, ma anche di teatro, con lo spettacolo Urlando furiosa di Rita Pelusio, che ha chiuso la terza e ultima giornata, e di proiezioni a ciclo continuo di film e documentari alla scoperta dell’evoluzione della figura femminile sul grande schermo fino alla recente contemporaneità del movimento MeToo.
L’ultimo intervento sul palco del Base è stato affidato invece a Michela Murgia che con grande schiettezza ha affrontato il tema della libertà a partire dalla propria esperienza.
«Io vengo da una famiglia abusante – ha raccontato – e per tanto tempo ho giudicato mia madre che rimaneva lì e costringeva noi a vivere in una relazione abusante, ma lei quelle catene non le vedeva e al divorzio ha votato pure contro. Per lei andare oltre quelle barriere era un conto più alto che stare con mio padre, era a suo agio nella sua prigione, era definita, sapeva chi era….Io combatto anche contro le donne, mia madre per prima».
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