Ci sono voluti trent’anni e 120 milioni di dollari perché “Megalopolis”, il sogno nel cassetto del regista del “Padrino” e “Apocalypse now” prendesse forma. Ma l’esito è deludente, nella forma piuttosto antiquata e nel tema di fondo, la decadenza contemporanea, non proprio inedito e mal gestito da uno script incoerente. Nemmeno il cast di gran lusso, da Adam Driver e Shia LeBoeuf a Dustin Hoffman e Jon Voight riesce a salvare l’operazione. Che oltretutto si annuncia un flop clamoroso al box office
Qualcuno l’ha già ribattezzato “Megaflopolis”: non si può certo dire che la nuova fatica di Francis Ford Coppola, nome simbolo tra i padri fondatori della New Hollywood anni ’70, sia approdata nelle sale spinta dai favori della critica. Tra chi parla di “trama incoerente”, chi ne osserva lo stile narrativo “totalmente fuori moda” e chi addirittura lo definisce un “testamento autolesionista”, si fa effettivamente davvero fatica a spiegare (o a giustificare?) Megalopolis, sogno nel cassetto del regista italoamericano per più di trent’anni, portato infine sul grande schermo a tempo abbondantemente scaduto.
Guarda caso, proprio trent’anni sono passati dagli ultimi grandi successi di pubblico e critica firmati da Coppola, ovvero Il Padrino Parte III con le sue sette nomination a Oscar e Golden Globe, e quel Dracula di Bram Stoker capace con i suoi incassi di salvare la propria casa di produzione dalla bancarotta. Poi il nulla o quasi, tra progetti di serie b più o meno dignitosi e pause di riflessione che sembravano l’anticamera di un meritato e definitivo buen retiro, nell’azienda vinicola californiana acquistata nel 2007. E invece, come le grandi rock band di una volta che tornano sul palco, senza più voce e capelli, per speculare sul bel tempo che fu, l’ormai ottantacinquenne Francis si toglie finalmente lo sfizio di dare sfogo alle sue fantasie più sfrenate. Il ventiquattresimo giro di giostra in più di sessant’anni di onorata carriera vorrebbe infatti essere, per definizione del suo stesso deus ex machina, “una fiaba” sul tema della visione e della creazione, oltre che sul lascito dell’arte alla società del futuro.
Peccato che, nel frattempo, il mondo del cinema sia andato avanti veloce, senza ammettere ignoranza o curarsi di chi lasciava indietro: per quanto faccia tristezza ammetterlo, Megalopolis pare inesorabilmente la corsa affannosa di chi prova a prendere il treno quando le porte sono ormai già chiuse. Ideato e rimandato più volte dagli anni ’80 a oggi, quello che per Coppola era il progetto di una vita resta ben presto impantanato in una regia vecchia e maldestra nelle sue pretese di magniloquenza, tra momenti di kitsch assoluto alla The Lady di Lory Del Santo ed “effetti speciali” (le virgolette sono d’obbligo) in CGI che sembrano realizzati con un Commodore 64. Il risultato è un collage raffazzonato di immagini brutte e tentativi a vuoto, salvato solo in parte dall’interpretazione di attori a cui andrebbe comunque dato un premio, se non altro per la serietà con cui pronunciano battute e dialoghi tanto surreali da scatenare la risata anche nei momenti più seriosi.
Eppure sarebbe bastato davvero poco. Sarebbe bastato spendere con maggior misura i riferimenti al peplum che, più che Ben Hur e soci, richiamano alla mente la parodia del genere di Ave, Cesare! dei Fratelli Coen. Sarebbe bastato dotarsi di un reparto effetti speciali all’altezza, anziché licenziare l’intero team tecnico-artistico a riprese già iniziate, tra scambi puerili di accuse reciproche. Sarebbe bastato andare un po’ meno per vigneti e un po’ di più al cinema negli ultimi quarant’anni, e scoprire l’evoluzione dello stile di narrazione su pellicola dai tempi del Padrino ad oggi, magari imparando che non è mai troppo tardi per aggiungere o cambiare. Ma tutto questo, evidentemente, a Coppola non interessa. Scelta più che legittima, per carità, considerando che ha pagato di tasca sua l’intero budget di produzione del film (120 milioni e forse più), recuperandone finora soltanto una decina al botteghino. Anzi, con tali presupposti e con un simile curriculum, a ogni grande maestro dovrebbe essere concessa la possibilità di un ultimo sfogo, senza curarsi di critica, pubblico o incassi.
Peccato che Megalopolis, più che a un’uscita di scena in grande stile somigli a un maestoso quanto sconclusionato delirio senile, nonostante un cast di prim’ordine tra cui spiccano i nomi di Adam Driver, Giancarlo Esposito, Nathalie Emmanuel, Shia LaBoeuf, Aubrey Plaza, Laurence Fishburne e persino i redivivi Jon Voight, Dustin Hoffman e Talia Shire. In una già vista New York futuristica e anni ’20 insieme (ribattezzata “New Rome” …), metafora telefonata della decadenza contemporanea, si consumano feste lesbo-chic in discoteca in stile Caligola di Tinto Brass, si citano Shakespeare e Marco Aurelio a casaccio, e si vedono cose che noi umani non avremmo mai voluto immaginare: scene come quella in cui Voight, in costume da Robin Hood e mezzo paralizzato dall’ictus, spara freccette dorate nel sedere di Shia LaBoeuf, sarebbero soltanto da dimenticare in fretta, per poterci ricordare, un domani, di un Francis Ford Coppola capace di fare molto, ma molto meglio di così.
Megalopolis di Francis Ford Coppola, con Adam Driver, Giancarlo Esposito, Nathalie Emmanuel, Shia LaBoeuf, Aubrey Plaza, Jon Voight, Dustin Hoffman, Talia Shire, Laurence Fishburne