Com’è possibile amare chi ti ha violato? E’ la grande domanda sottesa a ‘La marchesa von O’ tratto da Kleist e realizzato da Eric Romher nel 1976. In morte di Bruno Ganz, il film ci restituisce una prova d’attore così composta e malinconica da sostenerere il nucleo problematico della storia tra Giulietta e il conte F.
È morto Bruno Ganz. Inutile stare a fare la lista di quello che ha fatto. Tutti ricordano Il Cielo Sopra Berlino, L’Amico Americano, Pane e Tulipani. A me però piace ricordarlo soprattutto in un film, La Marchesa Von O… di Eric Rohmer, forse il primo davvero importante della sua carriera. Di certo uno dei miei preferiti di sempre.
Il film del 1976 è tratto dall’omonima opera di Heinrich Von Kleist dei primi dell’800. In un’imprecisata cittadina dell’Italia Settentrionale, è il 1799, la figlia del capitano della Cittadella, la marchesa Giulietta, subisce l’assalto della soldataglia, ma viene salvata da un ufficiale dell’esercito russo, il Conte F. Poco dopo il conte, che tutti credevano morto in battaglia, si presenta a chiedere con insistenza la mano di Giulietta. Lei sorpresa e forse per eccessivo pudore, lo rifiuta anche se non le è indifferente.
Dopo qualche tempo Giulietta capisce di essere incinta, ma non riesce a spiegarsi come sia stato possibile. Il padre non crede alla sua innocenza e la scaccia di casa. Sfidando lo scandalo, per dimostrare che il suo animo è puro, Giulietta decide di pubblicare un’inserzione sul giornale per invitare chiunque sia il padre a presentarsi.
Con sua sorpresa l’uomo che arriva alla sua porta è proprio il Conte. Per Giulietta è una tragedia. Non può credere che l’uomo che l’ha salvata sia anche il suo carnefice. Lo rifiuta, poi costretta dalla famiglia lo sposa, ma solo in cambio della rinuncia ai suoi diritti coniugali.
La devozione del Conte finirà poi per convincerla a ricambiare il suo amore. Il film si conclude con Giulietta che dice al Conte: “Non mi saresti sembrato un diavolo se, alla tua prima apparizione, non ti avessi preso per un angelo”.
La prima cosa che salta all’occhio, quando si guarda La Marchesa Von O di Eric Rohmer è la sua perfezione visiva. Ogni immagine sembra un quadro di Ingres. La fotografia di Nestor Almendros sfrutta solo la luce delle candele o quella naturale del giorno. Di conseguenza di notte i neri trionfano su tutto, squarciati a volte dalla drammaticità dei rossi e dei bianchi.
Di giorno i toni neutri hanno di nuovo il sopravvento, punteggiati dalla paglia dei cappelli, dalli scialli che scivolano perennemente dalle spalle, da qualche timido verde, dalle tappezzerie delicate dei mobili in stile impero.
A questa cura dell’immagine corrisponde un’attenzione particolare alla recitazione. Gli attori vengono tutti dal teatro, a partire da Bruno Ganz, che insieme a Edith Clever, che nel film interpreta Giulietta, è uno dei fondatori del trasgressivo collettivo teatrale Schaubühne am Halleschen Ufer del regista Peter Stein.
A loro Rohmer chiede una recitazione sommessa, quasi distante, algida.
La compostezza dei gesti e delle parole viene a volte interrotta da gesti plateali, improvvisi svenimenti, un colpo di pistola tirato in aria, piccole fughe nei corridoi, ma anche questi gesti sembrano concepiti più come interventi pittorici che come momenti d’isteria.
Eppure la strana fissità degli incontri fra Giulietta e il Conte F acquista una sua conturbante sensualità, giocata tutta sulla repressione.
Ma a monte di tutta questa perfezione visiva e della maestria degli attori, c’è il fatto che la Marchesa Von O è un film scivoloso. Perché tutto il racconto si poggia su un non-detto e non-mostrato. Ma che resta comunque un atto orribile: lo stupro di Giulietta.
Stordita da una pozione al papavero servita dopo l’assalto della soldataglia da una sollecita serva, Giulietta dorme profondamente. Quando il Conte giunge a salutarla, la trova riversa sul letto, abbandonata, e preso da subitanea passione per lei, non riesce a reprimere il suo desiderio. Accade un atto inconcepibile, anche se quello descritto da Von Kleist viene definito lo stupro più delicatamente realizzato nella storia della letteratura: “Allora… l’ufficiale”.
Rohmer replica lo stesso “non-detto” di Von Kleist, disegnando questo stupro con un’unica immagine, direttamente ispirata a un dipinto di Johann Heinrich Füssli, L’incubo. Nel dipinto di Füssli c’è l’abbandono indifeso della donna e una bestia nera, lasciva, che la sovrasta. In Rohmer la composizione è pressoché identica, ma in questo caso la bestia nera manca, o meglio, si è trasformata in un ufficiale fermo sulla soglia, vestito tutto di bianco tanto da somigliare a un angelo.
Ma è un’immagine che passa come un lampo.
La verità è che nel film Rohmer si concentra su tutto un altro elemento, ben più interessante dello stupro: la purezza di Giulietta.
Gli interessa la rivendicazione della sua innocenza a tutti i costi, anche a costo di svelarsi al mondo, di offrirsi al dileggio di tutti. In questo modo, più dello stupro poté l’integrità di Giulietta, che sfida le convenzioni e il giudizio per salvaguardare se stessa e il bambino che sta per venire al mondo. Non solo.
Giulietta deve trovare anche la maniera di accettare che la sua naturale attrazione nei confronti del Conte faccia pace con la realtà incontrovertibile dello stupro. Com’è possibile amare chi ti ha violato?
Per questo, io credo, Rohmer sceglie Bruno Ganz per interpretare il Conte F.
A me piace pensarla in questo modo, che la sua scelta sia il tentativo di cercare un po’ della purezza di Giulietta negli occhi di un attore malinconico, composto e delicato come lui. Perché nonostante il naso da pugile, in questo film Bruno Ganz ha un aspetto minuto, quasi fragile e smarrito. E solo grazie a un simile attore ci si può lasciar convincere del pentimento del Conte. Solo grazie a Ganz possiamo, insieme a Giulietta, perdonarlo e tornare ad amarlo nonostante ciò che ha fatto.