Novanta anni dopo, riguardando quello che potrebbe definirsi un doc sulla giornata di un cineoperatore. ‘L’uomo con la macchina da presa’ di Dziga Vertov tacciato al momento dell’uscita di ‘teppismo cinematografico senza senso’ sorprende ancora per la sua capacità innovativa che sottintende una grande fiducia nel linguaggio del cinema. Con buona pace di Ėjzenštejn
Un compleanno speciale quello de L’uomo con la macchina da presa, il capolavoro di Dziga Vertov uscito per la prima volta nelle sale l’8 gennaio 1929. A 90 anni di distanza il documentario del regista russo continua a sorprendere per la sua capacità di innovazione e il suo sperimentalismo. La trama de L’uomo con la macchina da presa, se così possiamo definirla, ripercorre la giornata di un cineoperatore, intento a filmare la città che si sveglia, che vive alla ricerca dell’inquadratura perfetta, finché la camera prende il sopravvento muovendosi da sola in una sala cinematografica.
In realtà la trama di per sé non ha un vero peso specifico in quanto il film è piuttosto pensato per tutti coloro che si occupano di cinema, o comunque sono interessati a capirne i passaggi. È infatti un documentario, per quanto non corrisponda propriamente all’idea che attualmente possiamo averne. Anche all’epoca la sua ricezione fu faticosa: i suoi contemporanei in Unione Sovietica rimproverarono a Vertov di aver dato più importanza alla forma che al contenuto; anche Ėjzenštejn non diede giustizia alla pellicola e arrivò addirittura a deriderla duramente definendola un “teppismo cinematografico senza senso”. Certo, leggere queste affermazioni fa alquanto pensare, perché effettivamente lo stile di Vertov si era da sempre manifestato come chiaramente sperimentale, in particolare per quanto concerne la tecnica di montaggio, come già si era visto in Avanti Soviet! del 1926. In quella pellicola, realizzata a scopi propagandistici, Vertov racconta l’operato del regime a favore della popolazione; ma non si lascia sfuggire l’occasione di arricchire il documentario con montaggi veloci e prime sperimentazioni di fast e slow motion. Certo, in quel caso era chiara la trama e lo scopo del film, ma possiamo dire che Vertov avesse cercato di “preparare” il pubblico (e i suoi colleghi!) ai suoi lavori futuri.
Il pubblico però non si era di certo aspettato un montaggio così serrato per L’uomo con la macchina da presa. Trattasi di circa 1800 inquadrature diverse e di un montaggio quattro volte più veloce rispetto ad un film tipico dell’epoca. Il recensore del New York Times, Mortaunt Hall, spiegò così il suo disappunto: «Il regista, Dziga Vertov, non tiene in considerazione il fatto che l’occhio umano ha bisogno di fissare uno spazio per un determinato lasso di tempo per potersi concentrare e prestare attenzione».
Con il passare degli anni la critica ha rivalutato il suo operato, dando il giusto valore al regista sovietico che ha avuto la fortuna/sfortuna di lavorare sotto il regime. Nel 2009, il critico cinematografico Rogert Ebert a proposito del film, scrisse: “Vertov ha reso esplicito e poetico il dono sorprendente che il cinema ha reso possibile, quello di organizzare ciò che vediamo, ordinandolo, imponendo un ritmo ed un linguaggio, e trascendendolo”. Non solo: Sight&Sound nel 2012 lo ha messo all’ottavo posto tra i migliori film di sempre.
Perché una pellicola del 1929, con tutte le limitazioni tecnologiche rispetto a quelle dei giorni nostri, dovrebbe (e ci riesce) suscitare interesse nello spettatore odierno? Una delle questioni è la più totale sperimentazione, quasi fosse un decalogo, di tutte le tecniche conosciute fino a quel tempo: doppie esposizioni, salti di scena, carrellate, riprese oblique, primissimi piani, split screen e ancora fast e slow motion.
Un’altra particolarità è la totale mancanza di didascalie, poco consueto per l’epoca visto che stiamo parlando ancora di cinema muto. Nonostante questo, il film è preceduto da titoli di testa in cui Vertov spiega il suo intento: creare un linguaggio universale che non prevede l’utilizzo di didascalie, attori, scenografie; un linguaggio che si doveva completamente scostare da quello teatrale e letterario.
L’uomo con la macchina da presa, non in senso di genere maschile, ma come rappresentante del genere umano. Abbiamo un uomo che cerca di catturare la realtà che lo circonda e una donna (la moglie di Vertov, Elizaveta Zvilova) che si occupa del montaggio, della manipolazione di questa realtà.
Perché, quindi, vederlo ancora oggi? Perché è impossibile guardare L’uomo con la macchina da presa senza cercare di capire come abbia fatto Vertov a essere così innovativo. Oggi potremmo filmare ed editare le cose più inimmaginabili, ma nel 1929 Vertov e la moglie sperimentavano, cercando di prevedere un risultato difficile da immaginare, supportati dalla loro abilità nel montare a mano ogni centimetro di filmato. Non solo, il ritmo del montaggio, così serrato, così naturalmente dinamico invita quasi a provare a guardarlo senza l’accompagnamento sonoro. Alla fine, L’uomo con la macchina da presa non è altro che una storia non storia senza tempo che racconta la visione avanguardista di un uomo che immaginava un linguaggio universale e che credeva nel supporto della tecnologia nella vita dell’uomo.