Il nuovo lavoro di Chicco Dossi al Teatro della Cooperativa, Out of the blue, porta una compagnia di valore nella versione del XXI secolo del teatro borghese, e ne fa un lucidissimo e intelligente espediente per guardare a noi stessi e alle vite che hanno abitato i nostri spazi e che noi abbiamo attraversato. Come gli amori, e le pandemie
Che effetto fa guardare indietro, a un tempo che abbiamo vissuto ma non è più il nostro? Forse qualcosa come osservare la vita di un altro e chiedersi – anche con un certo sgomento – ma davvero c’ero anche io? O invece ricordarsi benissimo cosa abbiamo vissuto, sentito, magari patito? Cominciamo a sorprenderci a osservarlo così il tutt’altro che remoto passato del lockdown, dalla gran parte di noi archiviato, forse innanzitutto per istinto di conservazione, come una parentesi surreale della realtà a cui, oggi, pensare con disagio e sorpresa. SIamo già arrivati al tempo in cui (è forse successo meno di quanto lo si prevedesse allora, quando ci si aspettava decenni di invasione di libri sul tema) il 2021 e i vuoti, le paure che ha spalancato, sono diventati oggetto di racconto. Lo fa Chicco Dossi al Teatro della Cooperativa, che apre il suo nuovo Out of the blue in scena fino a domenica 9, mettendo in scena la versione di un salotto borghese che quella congiuntura storica consentiva. Dove David, assistente universitario e avvocato, fa gli esami in videocall senza aver addosso, al di sotto della camicia, della giacca e della cravatta, nient’altro che mutande e calzini e – terrorizzato – rimprovera il suo giovane compagno Marcello che, nel fare la spesa, ha provato a concedersi un attimo di libertà al parco, di scappare dalle maglie strette delle necessità inderogabili e dei congiunti. La casa che li protegge e li imprigiona è un punto fermo, in una linea del tempo che, nonostante tutto, fuori, corre.
Ma se potesse correre all’indietro, oltre che in avanti? Scopriremmo e ci sovrapporremmo con le paure e la fame di senso che, quello stesso punto fermo, l’ha abitato prima di noi. Se i due ragazzi fossero andati indietro di vent’anni avrebbero trovato un altro amore, quello di Camilla, studentessa di fisica che cerca ragione della sovrapposizione tra tempo e spazio, e del barman Thibaut, e un’altra pandemia, di cui l’alba del 2000 portava in realtà la coda: quella dell’AIDS. Se però la paura del covid l’abbiamo condivisa – pur giudicandola e senza capirla, esattamente come la precedente – l’angoscia di Thibaut, forse più figlia degli anni Novanta – è, più ancora di quella del giovane uomo che porta sul corpo i segni di uno stigma che lo strapperà dalla sua stessa famiglia e dalla voglia di vivere – l’angoscia di una intera generazione, quella soglia tra i venti e i trenta che sente inesorabilmente scadere il proprio tempo, e si sa mangiato dall’urgenza di darsi un senso. Sia quello di un lavoro, di una sorte apparentemente già scritta come quella professionale di David, in rampa di lancio ma solo finchè riesce a mantenersi succube del barone in vece del quale lavora senza orari, o quello di una vita fatta di comprensione, come Camilla, consapevole che per comprendere il mondo e forse se stessa deve illuminare la chiarezza delle sue leggi, siano quelle che legano un figlio ai suoi genitori o le formule dei quanti che solo altrove si scoprono. Dall’altra parte, c’è il disorientamento dei ragazzi che non vedono futuro, perchè il mondo – attraverso la malattia, concreta o potenziale, per loro non l’ha scritto.
Quattro vite che si intrecciano senza incontrarsi mai, si fanno eco e si sovrappongono – si schiacciano, dentro uno spazio che fa eco ai loro sentimenti, come se il muro di casa li avesse trattenuti. Come se la memoria dei luoghi trattenesse dolori antichi, confessati come una conquista solo quando dentro alla casa si è costretti a trovare calore per non morire di freddo. In fondo, di fronte all’angoscia del vuoto, a tutti non resta che aggrapparsi a chi ti salva senza saperlo, come una amica d’infanzia, chi c’è, senza imposizione. Quando però, all’interno del quadro, irrompe la morte, come dato o come possibilità, gli appigli vengono meno e – a quel vuoto, si è costretti a dare una risposta. Che a volte è il riconoscimento di un equilibrio, altre è il bisogno di finire quello che credevamo fosse eterno o dargli un’altra forma.
Ciascuno sopravvive a modo suo, del resto, al momento in cui il dolore ci costringe a prendersi l’attenzione e a riconoscere di non avere più la forza di vedere altro che il proprio, di non sapere più farsi carico delle conseguenze, sull’altro, dell’irrompere della vita. Che continua e si incastra come le tessere di un puzzle, il cui confine (tra gli anni e i vissuti) è segnato solo da un cambio di luce: calda per gli uni, fredda per gli altri. Il resto è semplicemente la vita, dove nessuno si salva da solo, ma non è all’altro che possiamo demandare la nostra sopravvivenza. Il gioco di sovrapposizioni è orchestrato con maestria dallo stesso Chicco Dossi, che nobilità e gioca astutamente con la convenzione teatrale della coincidenza di luogo e di spazio.
Glielo consentono quattro attori che nonostante la giovane età (se la misura della giovinezza, in un tempo storico e in un sistema teatrale in cui si è giovani quasi all’infinito, ha ancora un senso) sono artisti di assoluta levatura: lo è la freschezza della Camilla di Cinzia Tropiano, il disorientamento e insieme la dolcezza ragazza del Marcello di Diego Plauteri. particolarmente intensi poi, David, la cui solo apparente solidità è l’accorta corazza di chi ha bisogno di proteggersi, restituita da Francesco Meola con eleganza e misura, e il Thibaut di Simone Tudda, che sa essere senza pelle senza mai eccedere, muovendosi nello spazio (e facendo muovere i colleghi, rivendica con un sorriso fuori scena il proprio contributo alla costruzione del lavoro) con padronanza invidiabile. Un lavoro convincente e densissimo, che si può descrivere (pena l’eccesso di lunghezza) soltanto scegliendo uno solo dei molti angoli da cui può essere osservato, che hanno consentito al lavoro di fare già incetta di premi, a partire dall’InediTo. Gli altri, non resta che osservarli, come facciamo con la nostra vita e – insieme – tutte quelle che sono state o avrebbero potuto essere, in quello stesso frammento di mondo in cui ci sentiamo soli senza esserlo davvero mai.