100.000 foto in cerca d’autore

In Arte

Per anni, mentre lavorava come tata, ha scattato fotografie meravigliose, sviluppate solo dopo la sua morte. Da Forma Meravigli va in scena l’incredibile storia di Vivian Maier.

Vivian Maier. O Miss Maier, Mayer, Meier, Miss V. Smith… Chi era costei? Una «fotografa ritrovata» la dipinge la mostra della Galleria Forma Meravigli, visitabile fino al 31 gennaio. 120 fotografie in bianco e nero che risalgono agli anni Cinquanta e Sessanta e alcune immagini a colori del decennio successivo che ci restituiscono parte del suo sguardo acuto, ironico, femminile quanto basta e femminista – meno di quanto la dipinga chi l’ha conosciuta, a cominciare dai bambini di cui è stata tata.

Moltiplicate per quasi mille volte il numero di quelle fotografie e otterrete la produzione di quest’artista, scoperta troppo tardi nel suo talento per essere intervistata e per dirci lei stessa chi fosse veramente. Nata nel 1926 a New York e morta nel 2009 a Chicago, nell’indigenza più assoluta, ha vissuto la maggior parte dei suoi anni come tata e domestica. Macchina fotografica sempre pronta a scattare, ovunque andasse, ha acquisito fama nel 2011. A restituircela, e non finiremo mai di ringraziarlo, John Maloof, che dopo aver acquistato a un’asta una scatola con centinaia di negativi, si è messo in cerca della misteriosa fotografa; ed è stato in grado di fiutare prima, e creare poi un fenomeno mediatico in crescita, a partire dal documentario del 2013, Finding Vivian Maier. Scoperte che più facilmente accadono negli Stati Uniti – si pensi al caso analogo del cantautore Sixto “Sugar man” Rodriguez – ma che finiscono per conquistarci al di qua dell’Atlantico in modo quasi irrimediabile.

Vivian Maier, Autoritratto, giugno 1953. © Vivian Maier/Maloof Collection, Courtesy Howard Greenberg Gallery, New York
Vivian Maier, Autoritratto, giugno 1953. © Vivian Maier/Maloof Collection, Courtesy Howard Greenberg Gallery, New York

La figura della tata-fotografa – nata a New York, cresciuta in Europa, e poi vissuta di nuovo negli Stati Uniti –, non può che piacerci: ha un che di rassicurante, da un lato, di emancipante, dall’altro, profondamente interessata alla politica, alla società, con uno sguardo critico e ironico, e, soprattutto, alla propria indipendenza. Ci piace pensare che incarni un certo tipo di donna in grado non tanto di farsi da sola, visto anche il suo destino, ma di condurre la propria vita secondo una passione (ossessione) mai trasformata in mestiere. La figura di Vivian Maier, ricostruita attraverso il documentario del suo scopritore e gli studi successivi, è complessa e a tratti contraddittoria: presentata come mitica, ricorda quella di una Giovanna d’Arco della fotografia, con qualche debolezza e lato oscuro in più a renderla meno sovrumana ed eroica.

Bulimica e camaleontica, la fotografia di Maier gioca tra la riconoscibilità e intensità dei suoi bianco e nero che raccontano le città – New York, Chicago – e chi le abitava, e il sapore rossastro e minimalista delle immagini dei vecchi rullini a colori, sviluppati postumi come quasi tutto il resto. Tante le identità con cui si presentava a chi incontrava, unite sotto un unico sguardo che solo la sua opera in negativi ci ha permesso di cogliere e salvare. Un personaggio dal fascino sicuro e dall’altrettanto sicuro appeal, anche commerciale: aspetto che cozza con il carattere della fotografa, con quello che Maier avrebbe voluto essere.

Vivian Maier, April 7, 1960, Florida. © Vivian Maier/Maloof Collection, Courtesy Howard Greenberg Gallery, New York
Vivian Maier, April 7, 1960, Florida. © Vivian Maier/Maloof Collection, Courtesy Howard Greenberg Gallery, New York

La sua compulsione nello scatto e negli autoscatti è stata paragonata al modernissimo meccanismo che ci possiede oggi e che si realizza in una condivisione continua e quotidiana. Mi chiedo quanto la grande produzione di autoritratti fosse segno di un’esigenza intima e profonda di conoscersi meglio, per la difficoltà di Maier di conoscersi negli altri, o quanto piuttosto di un soffocato esibizionismo, tenuto buono dalle altre ossessioni della donna, che la spingevano per esempio a conservare cataste di giornali tanto fitte da rendere difficile il passaggio nella propria stanza da letto di tata e governante, ai piani superiori della casa della famiglia che la ospitava in quel momento. Forse proprio quella volontà di trattenere e non lasciare andare la materia diventava voglia di trattenere tutta la realtà con le fotografie e i filmati in super8, per la paura di perderne senza rimedio qualche pezzo.

Ma, non soddisfatta dai suoi oggetti personali, dai documenti, dalle memorie vocali che magari avrebbe voluto che non diventassero di pubblico dominio – quando l’ossessione prende il posto della passione diventa cosa più privata e meno pubblica, forse, ed è allora una violenza inaudita quella che si sta consumando –, Maier era anche abbastanza maniacale da acquisire eccellenti capacità fotografiche, in parte innate, ma soprattutto coltivate e sollecitate ogni giorno, fino a essere definita oggi una maestra della street photography.

Vivian Maier, New York, 1954. © Vivian Maier/Maloof Collection, Courtesy Howard Greenberg Gallery, New York
Vivian Maier, New York, 1954. © Vivian Maier/Maloof Collection, Courtesy Howard Greenberg Gallery, New York

Vivian Maier, tra le pagine dell’omonimo sito che ne ricostruisce la storia, viene definita «Una persona che calza lo stereotipo della sensibilità europea di una donna libera e indipendente, dall’accento a tutto il resto, eppure nata a New York», e ancora «uno spirito libero, ma anche un’anima orgogliosa», come una moderna eroina di Jane Austen. Se smettiamo di farci ossessionare, tuttavia, da chi sia stata realmente quella donna, che nel suo essere così umana ci sembra quasi creata ad hoc, le fotografie di Maier hanno la capacità di divertire, di spingerci a soffermarci sui dettagli da lei colti. Ci portano a godere del loro essere state scattate e pensare, mentre le si guarda in mostra, «Toh, questa ha davvero qualcosa di geniale».

Quella piccola porzione di smisurato lavoro vale la pena di essere vista e di essere accompagnata, meglio dopo e non prima, dalla visione del documentario che ci somministra qualche risposta in più. E fa sorgere una curiosità: chissà che aspetto hanno le sue fotografie meno riuscite: ce ne devono pur essere, in mezzo a centomila.

 

Vivian Maier. Una fotografa ritrovata, Galleria Forma Meravigli, fino al 31 gennaio.

Il film Alla ricerca di Vivian Maier, di John Maloof è in programmazione per tutta la durata della mostra presso il Cinema Beltrade

 

Immagine di copertina: Vivian Maier, Senza titolo. 3 settembre 1943. © Vivian Maier/Maloof Collection, Courtesy Howard Greenberg Gallery, New York

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