In scena alla Scala, la rivincita de ‘La Rondine’, riscattata, grazie alla rilettura di Chailly e a un’orchestra in stato di grazia, da un destino che l’ha sempre voluta opera secondaria del repertorio pucciniano
Quanti al titolo La Rondine chiamano subito il nome Puccini? Forse non molti, anche tra i melomani e i “concert goers”. Merita, La Rondine, il destino “secondario” che l’accompagna da quando è nata? No, non parliamo di un frutto immaturo della giovinezza, ma di un’opera pur leggera nata nel 1917, dopo La fanciulla del West, vicina al Trittico e con dentro gli “avvisi” di Turandot, coronamento (incompiuto) della carriera e vertice di un linguaggio. Il destino “a margine” nel catalogo del più grande operista italiano del Novecento potrebbe subire una svolta grazie allo spettacolo che sta in scena alla Scala in questi giorni (ancora il 7, 9, 12, 14 e 20 aprile). Soprattutto per la musica che si ascolta e come la si ascolta, per scelta e nelle mani di Riccardo Chailly.
La rondine di cui racconta l’opera è ovviamente una donna, Magda de Civry (soprano), che nella Parigi del Secondo Impero, quello celebrato da Offenbach in 109 opere, operette, vaudeville e altro ancora, fa il “mestiere” nei modi eleganti che sono anche di Violetta Valéry. (Che facciano anche rima non è per niente un caso). Magda, la camerierina Lisette (suo “doppio” anche nel canto), le amiche, il poeta “filosofo” Prunier (tenore leggero), discutono di quel che fa girare il mondo: l’Amore. Ma quale amore? Il “sentimentale” che Prunier nota imperversare a Parigi come una “moda”? Quello “vero” che Magda ricorda di aver sfiorato negli occhi di un giovane senza soldi e che sogna di vivere ancora, dimenticando i vantaggi offerti da Rambaldo (baritono), protettore agée? O forse quello che Lisette descrive spiccia e d’emblée: «Amor sentimentale? …Storie!… Si vive di fretta: Mi vuoi?… Ti voglio. È fatto!».
Che la “location” sia nella Parigi anni Sessanta dell’Ottocento, serve solo ad affollare i ricordi letterari e musicali. La Rondine è una storia di sempre, quindi anche nostra. È la parabola in tre atti di una donna che vive quella “replica” dell’amore “vero” come insperata realizzazione di un ricordo nostalgico, ma la sua coscienza non le permette di concedersela fino in fondo. Il giovane Ruggero (tenore), l’ingenuo provinciale con cui Magda ha il nuovo colpo di fulmine, non conosce il suo segreto, ovvero la sua vita passata e presente. Insieme si rifugiano in Costa Azzurra (non quella di oggi, per fortuna loro), da spiantati bohémien (proprio come Violetta e Alfredo nell’atto secondo di Traviata). Si amano, ma lei non può confessarsi e del resto è anche vana l’illusione di poter sostituire Parigi con la semplicità di una vita casalinga che è anche la tomba della Passione. Così, dopo un primo atto di schermaglie da salotto, un secondo fiammeggiante da café chantant, nel terzo Magda volerà via dall’affranto Ruggero come una rondine che non può fermarsi, anche se ferita dal dolore.
Sul finale Puccini si tormentò molto, cercando e trovando varianti più esplicite ma in fondo prosaiche. Qui, sui versi di Giuseppe Adami, si consuma una conclusione più vaga e poetica.
Ruggero, innamorato perso, chiede alla mamma (sì) il permesso di sposare Magda. Mamma è felice: «Figliolo, tu mi dici che una dolce creatura ha toccato il tuo cuore… Essa sia benedetta se la manda il Signore… Penso con occhi umidi di pianto ch’essa sarà la madre dei tuoi figli… È la maternità che rende santo il matrimonio». Parole toccanti che piacerebbero molto ai ministri di questo Governo, anche quelli che mettono Times Square a Londra e rischiano di cercare Piccadilly Circus a Baltimora.
Magda sarà pure una mondana, non è “mite e pura” come pensa la mamma, ma ha un cuore e un’anima: «non posso ingannarti», implora, «non posso entrare nella casa onesta dei tuoi vecchi». E se ne va. Dove? Verso un destino già scritto o un nuovo sogno? Sicuramente verso qualcosa di suo, da donna libera. Per una volta, una sola (anche in Turandot c’è una morte, quella di Liù, su cui finisce di fatto la versione incompiuta) in Puccini non c’è un’eroina senza vita a chiudere l’opera. E questo contribuisce a scrivere il carattere moderno della Rondine, che le fa meritare tempi migliori nell’incontro (spesso mancato) con il pubblico.
Come sempre, è la musica a compiere il miracolo di ribaltare la realtà apparente della parola, distogliendoci dalle letture politicamente (s)corrette ed esteticamente fuori di testa che inscenano processi al patriarcato maschilista di Puccini leggendo solo i libretti, come se la musica nemmeno esistesse, con il suo potere di “svelamento”.
Ancora una volta ha piena ragione Riccardo Chailly, come l’ebbe con Boris Godunov scegliendo la prima versione di Musorgskij e dirigendola di conseguenza (risultato tra i più alti della sua direzione musicale alla Scala, insieme a Salome, al dittico Weill). Ha ragione, per la “rivincita” dell’opera, a proporre La Rondine nell’edizione critica condotta sul manoscritto riscoperto tra le carte di Torre del Lago.
Puccini, maestro della Nostalgia come categoria della musica, dilaga in questa Rondine insieme alla scrittura “nuova” che dal 1915 cominciò a elaborare con forza irresistibile. Così come è irresistibile quel che Chailly ottiene dall’ Orchestra della Scala in stato di grazia: nell’ampia prosodia “quotidiana” dell’atto primo, in cui Puccini si siede letteralmente al pianoforte; nella verve offenbachiana dell’atto secondo; nello strazio intimo del terzo. La Rondine è forse l’affondo più diretto nella storia di Chailly interprete pucciniano.
C’era speranza che Irina Brook, autrice di un bel dittico Weill nel 2021, in linea con l’essenzialità di suo padre Peter, replicasse per questa riscoperta del ‘900 uno spettacolo asciutto e di mordente. Si è lasciata andare a una poco astratta modernizzazione da Gaîté Parisienne, con lucine e costumi da boulevard rivisitato (Patrick Kinmonth). In uno spettacolo di gestualità molto convenzionale, del quale si ricorda una sola idea, l’ultima, quella in cui, da un pontile trasformato in corsia sospesa, una porta sul fondo ingoia Magda chiamandola con un’insegna luminosa rossa: EXIT.
Che cosa sia La Rondine, che cosa la possa avviare a una riconquista di posizioni, lo scriveva già Puccini a un’amica: «Piccola Opera, leggera, sentimentale, un poco comica, ma simpatica, chiara, cantabile (beh, con le dovute precauzioni, ndr) con piccoli valzer e con note allegre e toccanti: una specie di reazione alla musica ostica moderna che è simile alla guerra». Anche in questo, c’è di che essere attuali.
Foto Brescia e Amisano ©Teatro alla Scala