Il regista francese fa di nuovo centro col film che ha girato prima di “Mon crime”, pure lui nelle sale italiane: opulento, tormentoso, superbo, personalissimo e del tutto convincente. A partire dalla scelta degli interpreti, e prima di tutto del protagonista Denis Ménochet, che è un regista ricco e famoso, dall’ego ingombrante e dall’indomabile narcisismo. Forse un esercizio di stile, ma magnifico, struggente, che rifiuta il sentimentalismo e gioca con la passione e la voglia di romanticismo
Colonia, 1972. Il sipario si apre ed ecco apparire l’appartamento di Peter von Kant (Denis Ménochet), regista ricco e famoso dall’ego ingombrante e dall’indomabile narcisismo. Un uomo colmo di talento e di ossessioni, abituato a comandare a bacchetta il suo arrendevole assistente, Karl (Stefan Crepon), e a disporre in piena e capricciosa libertà del proprio tempo, della propria vita e dei propri desideri. Fino al giorno in cui nella sua vita entra il giovane Amir (Khalil Ben Gharbia): bello, sfrontato e seducente, povero e affamato di tutto. Insomma, un perfetto oggetto d’amore nelle mani del suo pigmalione, che si innamorerà di lui e deciderà di farlo entrare nel mondo del cinema, trasformandolo in una star. Ma l’oggetto ben presto si scopre soggetto, e quello che inizialmente doveva essere un ben definito e univoco rapporto tra un servo e un padrone cambia di segno, confondendo le carte, e mostrando tutta l’ambiguità dell’amore e della sua forza, erosa in ogni istante dalla debolezza e dallo stordimento.
Mentre la presenza diligente e silenziosa di Karl si fa sempre più inquietante, nello spazio intimo e teatrale della casa di Peter irrompono anche due personaggi femminili: la madre di Peter, con il volto altero e l’incedere maestoso di Hanna Schygulla, e Sidonie, la diva, la musa, presenza fantasmatica dal viso di porcellana che ricorda vagamente quello di Isabelle Adjani che la interpreta. E proprio alla sua voce vibrante è affidata la canzone Jeder tötet was er liebt (Each man kills the things he loves, “ogni uomo uccide le cose che ama”, come cantava Jeanne Moreau in Querelle de Brest, il capolavoro di Fassbinder, il suo dolorosissimo testamento spirituale).
A distanza di poche settimane da Mon Crime, ecco arrivare nelle sale un nuovo film di Ozon, in realtà girato in precedenza e uscito in Francia nel 2022. Ispirato a Le lacrime amare di Petra von Kant di Rainer Werner Fassbinder, è il secondo omaggio di Ozon al regista tedesco dopo Gocce d’acqua su pietre roventi (2000), una delle prime pregevoli tappe dell’eclettica carriera del regista francese, ispirata a una pièce di Fassbinder prima di allora mai messa in scena. Un esercizio di stile? Certo che sì! Magnifico e struggente, carico di sentimento ma che rifiuta il sentimentalismo e gioca con la passione e la voglia di romanticismo.
Un film opulento, tormentoso e superbo, personalissimo e del tutto convincente, a partire dalla scelta degli interpreti. Prima di tutto Denis Ménochet, magnetico e goffo, commovente e irritante, capace di incarnare alla perfezione una sorta di alter ego teatrale e survoltato, eppure assolutamente sincero di R. W. Fassbinder, ovvero uno degli autori che hanno fatto grande, e a tratti straziante, il cinema europeo del secolo scorso.
Peter Von Kant di François Ozon, con Denis Ménochet, Isabelle Adjani, Khalil Ben Gharbia, Hanna Schygulla, Stefan Crepon