“Voragine” di Andrea Esposito racconta con freddezza e distacco l’orrore di mondo senza più umanità
L’uomo «oscilla sempre tra bestia e cosa. Quando mangia è una bestia e quando costruisce è una cosa. Quando fa qualcosa che serve è una cosa. Ma quando è una cosa lo fa per obbedire alla bestia». Sono parole di un padre senza nome a Giovanni, protagonista di Voragine, romanzo di esordio di Andrea Esposito. Romanzo che parla della progressiva sparizione dell’umanità, sia in senso letterale che metaforico: le persone, in questo universo che si avvicina all’apocalisse (in un incrocio di immaginari fra The Leftovers, The walking dead e La strada di McCarthy) scompaiono senza motivo e quelle che rimangono vengono spogliate della propria umanità in un processo di imbestiamento e cosificazione dell’essere umano, quasi ridotto a un automa che esegue gesti meccanici; nessuna introspezione psicologica in queste pagine: i personaggi semplicemente si muovo nello spazio, compiono poche azioni, spesso sempre le stesse, a volte parlano fra di loro; il narratore è come un’ombra che segue il protagonista e si limita a registrarne le vicende da un punto di vista esterno.
Ridotto alla fame, straziato dal freddo e dalla malattia, il protagonista vaga per il mondo, incontra la violenza di uno stato di natura hobbesiano, tenta di sfamarsi prendendo a morsi un ratto. Nessun tentativo di spiegazione del funzionamento di questo mondo a metà fra il distopico e l’orrorifico: tutto ci viene presentato con assoluta freddezza, in una sintassi elencatoria che semplicemente accumula eventi, situazioni e atmosfere, ma che non tenta di riorganizzare la trama in una struttura dotata di significato («Tutto restava inspiegabile in maniera uniforme»); talvolta è anche difficile collocare gli accadimenti su un asse temporale, in un regime di indistinzione fra il prima e il dopo. Le cose accadono, semplicemente, e il male sta nelle cose stesse, permea le fondamenta di questo mondo: «il freddo invece non sembra portato dal vento ma sorgere dalla terra e dalle cose». È un mondo che funziona secondo leggi proprie che non vengono esplicitate, è una zona (come l’Area X di Jeff VanderMeer, ma i due autori non potrebbero essere più diversi) in cui la presenza umana è del tutto ininfluente e reca tracce solamente attraverso i rottami e i rifiuti che si lascia dietro. Rifiuti sono anche i corpi e le carcasse abbandonati per le strade e ai bordi dei fiumi. E tutto intorno c’è soltanto il nulla, il vuoto, la desolazione, nessuna presenza umana, «un percorso senza fine e senza destino. E non c’è nessun altro intorno da nessuna parte». Un mondo siffatto non può che uccidere anche la speranza: l’unica attesa per i rimasti può essere quella della morte degli altri, la gente aspettava di vedere la gente morire per poterla mangiare. E in un regime di indistinzione fra uomini e bestie anche i cani mangiano la propria carne in mancanza d’altro, consegnandosi all’unico destino possibile, quello della morte.
È un universo inquietante, quello di Andrea Esposito, eerie, avrebbe detto Mark Fisher. Nell’ultimo libro scritto prima del suicidio, Fisher descrive l’eerie come un paesaggio spogliato da qualsiasi presenza umana che ci mostra tutta l’inconoscibilità e l’imperscrutabilità del reale. È così il mondo di Voragine, mondo coperto da un manto di insensatezza e costruito attraverso una serie di processi di straniamento che non consentono al lettore nessun tipo di immedesimazione. Tutto, dal dolore più acido all’orrore più macabro e disgustoso, è descritto con assoluto distacco e disturbante freddezza. La sintassi paratattica ed elencatoria riproduce quasi la ripetitività del dettato biblico, la lingua scarnificata – si sa – batte dove il dente duole, insistendo costantemente sulle stesse parole e sugli stessi campi semantici: quelli del corpo, del corpo martoriato, dolente, affamato; del vuoto e dell’assenza; del freddo e della notte. La ripetizione ha anche un effetto ritmico, cui contribuiscono anche l’uso di allitterazioni e assonanze e la sintassi paratattica che spesso riproduce metri classici della tradizione poetica (soprattutto settenari, ottonari ed endecasillabi) che si accumulano soprattutto nei momenti in cui la registrazione degli eventi lascia spazio alla descrizione dello spazio esistenziale del protagonista («E poi torna la notte. La febbre e il delirio. Le labbra secche e bianche. E la febbre gli toglie il respiro»).
In questo mondo invivibile, al protagonista non rimane che la scelta etica della testimonianza: testimoniare i «corpi che diventano niente», le «unghie e denti bianchi pronti a spezzarsi negli urti e sanguinare», la violenza, la «ferocia che è organismo e linguaggio». Ma anche quei rari e inspiegabili attimi di gentilezza, gentilezza che in un mondo insensato e devastato non può che essere senza senso («Ma era bello che non avesse senso. Era giusto che non avesse senso»): la gentilezza di un uomo e una donna che offrono una coperta a Giovanni in fin di vita; la gentilezza di un vecchio che risparmia gli organi di una donna, nonostante abbia fame, nonostante il cannibalismo sia divenuto la norma. In una narrazione che ha tutta la forma del cammino di deformazione e dissoluzione del mondo, di un mondo che, per dirla con Pagliarani, non promette scampo dalla terra «proprio perché sulla terra non c’è / scampo da noi nella vita», in questo mondo la vista finale di un cespuglio, verde, in mezzo al nulla, al niente, non può che ricordare il cespuglio nel deserto attraverso il quale dio parlò a Mosè (e il libro si apre con una citazione dal vangelo di Giovanni). Allora, pure in un mondo senza dio, forse una palingenesi è possibile, come in quei «rami marroni e neri duri e pieni di forza» che Giovanni «vede ostinati tremare nel vento».