Mamme, maestre, elettrici, candidate e qualche domanda aperta

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‘Il giudice delle donne’, romanzo di Maria Rosa Cutrufelli dedicato alle maestre che ottennero l’iscrizione alle liste elettorali nel 1906, i dati sull’astensionismo femminile sempre in crescita, in cronaca i casi Meloni e Bedori: a 70 anni dal voto qualche quesito sul conflittuale rapporto delle donne con la politica

 Il settantesimo del voto alle donne in Italia e i dati di oggi sulla partecipazione elettorale, un romanzo appena uscito Il giudice delle donne di Maria Rosa Cutrufelli che racconta delle ‘maestrine’ coraggiose che, prime nel 1906, ottennero l’iscrizione alle liste elettorali, il film di Sarah Gavron sulle suffragette inglesi appena passato sui nostri schermi: molte buone ragioni per tirare qualche filo della storia tormentata e appassionante dell’affacciarsi delle donne nella cosa pubblica dalla quale sono state per secoli escluse e con la quale intrattengono un rapporto complesso di cui sono eloquente specchio – anche, ma non solo – i numeri della partecipazione e della rappresentanza (qui quelli di Openpolis).

E se non bastassero le buone ragioni ci sono anche quelle ‘cattive’ che ribadiscono quanto in Italia sia roccioso il muro degli stereotipi e delle resistenze: dalle cronache ci tirano per la giacchetta i casi di Giorgia Meloni (“Deve fare la mamma, non può fare il sindaco” e lei a ribattere candidandosi alla guida di Roma) e le dichiarazioni di Patrizia Bedori, ex candidata 5stelle nella corsa milanese, che ha raccontato di essere stata bersaglio (non la prima, non l’ultima, sappiatelo) di commenti sessisti e denigratori nell’arco che va da obesa a casalinga da disoccupata a brutta.

Eccoci qua insomma e avvilisce il riproporsi costante di un’Italia retriva e sorda al cambiamento che tira fuori la famiglia tradizionale (e, contraddizioni in seno al popolo, Meloni in questo è in prima fila) quando si tratta di negare diritti ad altre famiglie e di ostacolare il percorso delle donne o che non si stanca mai di insultarle (Kyenge, Boldrini, oggi Bedori, prima Bindi solo per citare le ultime e ad ognuna il sessismo nostrano ha riservato una propria specifica attenzione).

Ottimo antidoto cercare una boccata d’aria, andare alla ricerca del coraggio delle donne, del loro desiderio di diventare cittadine, alla pari, di contare, di stare dentro la polis. Maria Rosa Cutrufelli ha una mano sicura e tutta da godere nel restituire la misura della voce delle donne nel loro tempo e nel costruire tra le sue ‘personagge’ catene solide e racconti corali all’incrocio tra pubblico e privato, tra le ragioni del cuore e la spinta del pensiero. Lo aveva fatto molto bene con l’amatissima Olympe de Gouges, autrice della Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina finita sulla ghigliottina di Robespierre e protagonista di La donna che visse per un sogno , lo fa adesso con questo suo riuscito romanzo che ripercorre la sfida portata da dieci maestre marchigiane e raccolta da Lodovico Mortara, “il giudice delle donne” come da titolo, per ottenere, nel 1906, l’iscrizione nelle liste elettorali. Storia bella, ben raccontata, storia che ci dice, con le parole della maestra Alessandra e com’è vero ancora oggi, quanto precaria sia la libertà femminile  “basta un soffio e se ne perdono le tracce”, storia che avrà ripercussioni sulla vicenda italiana visto che, come argomenta Giuditta Brunelli in Donne e politica, esiste una “forte correlazione tra precocità del suffragio e partecipazione delle donne alla vita pubblica, anche nelle sedi istituzionali”.

Dal gesto coraggioso delle maestre, dalla lungimirante sentenza del giudice Mortara dovettero passare 40 anni, una guerra, una dittatura, un’altra guerra e  infine la Resistenza perché quella sfida si traducesse nel 1946 nell’emozione delle prime italiane al voto – “la vertigine di ritrovarsi davanti a me cittadino“, ci racconta Maria Bellonci – e per cominciare un cammino che si mostra ancora denso di nodi irrisolti.

Oltre ai numeri sulla rappresentanza che ci dicono anche quanto spesso la dimensione paritaria sia argomento  più di comunicazione che di vera sostanza, vale la pena riassumere i dati che in un paio di recenti occasioni a Bologna e a Milano sono stati presentati da Piergiorgio Corbetta, Dario Tuorto e da altri ricercatori dell’ Istituto Cattaneo: l’astensionismo, cominciato negli anni ‘70,dopo che le italiane avevano avuto contrariamente ad altri paesi altissimi tassi di partecipazione elettorale, continua la sua inesorabile ascesasono le donne a pesare di più in questa estraneità al voto, sia essa “apatica” o segno di una protesta contro un’offerta politica che non soddisfa.

Non solo: dalla fine degli anni ’80 la forbice tra donne e uomini si va allargando e tocca il suo acme nel 2013 (5%) e a non votare sono soprattutto le donne del sud (quelle che peraltro lavorano di meno, non cercano neanche più occupazione, a dire quanto questi elementi siano connessi). Tralasciando  i dati sulle preferenze delle donne (svelo solo la conclusione: in Italia non si è compiuto il passaggio al modern gender gap che vede le donne più a sinistra sull’asse politico, ci sono però importanti dinamiche generazionali e, negli ultimi anni, la geografia politica è stata ‘terremotata’ dalla nascita del M5stelle), le donne appaiono insomma le più stanche, le più lontane a ribadire una maggiore problematicità, per ragioni storiche e culturali e forse anche per le mancate risposte alle loro richieste, della relazione femminile con la politica.

Eppure non si può non notare una divaricazione: abbiamo il parlamento più rosa della storia repubblicana, tocchiamo quella soglia del 30 per cento individuata come la massa critica che comincia a contare nelle decisioni, indubbi passi in avanti dal punto di vista del riequilibrio di genere sono stati fatti dalla giurisprudenza che ha cominciato a “bacchettare” giunte monogenere o che non rispettano la parità ormai prevista o già entrata anche nelle leggi elettorali con la doppia preferenza per le elezioni locali.

Non era forse lecito almeno sperare che questi indubbi elementi di novità contribuissero a rimotivare un po’ di più le donne all’esercizio della politica? Così non è stato  e non sembra neanche che questa massa critica abbia contribuito in maniera significativa a risolvere il ritardo del nostro paese sulle questioni che riguardano la vita delle donne perché sono loro a farsene carico, ma che fanno la trama ineludibile della vita di tutti e parliamo di welfare, lavoro di cura, nuovi modi di vivere e lavorare.

Si affaccia invece un tema che riguarda la differenza che le donne portano o potrebbero portare nella cosa pubblica al tempo in cui molte stanno dentro quelle stanze in una maniera che appare neutra e che usa il femminile e i suoi codici in funzione rassicurante del maschile. Ne ha parlato di recente Lea Melandri qui, riferendosi alle donne delle destre populiste europee, ma è un atteggiamento che sembra trasversale, laddove sarebbe utile cosa che la carica delle donne significasse autonomia, nuovi pensieri sul governare e l’amministrare che guardassero alla cultura politica delle donne e del femminismo: questioni vitali per tutti e per il senso stesso della polis.

Troppo pretendere dalle donne e in un tempo della crisi (della politica, dell’economia, del nostro modello di sviuppo) che poco consente di  alzare lo sguardo, tanti e intricati sono i temi e gli sconvolgimenti dell’oggi? È quasi una domanda retorica, ma ci dice qualcosa ancora la maestra Alessandra (e non liquidiamola dicendo che in un romanzo tutto è più facile, la sfida delle maestre marchigiane è un pezzo della nostra storia): “Voglio di più. Voglio andare a Roma, iscrivermi all’università e frequentare il corso della Montessori per le diplomate della Normale…mi interessa il suo metodo perché mette l’accento sul futuro”.

 

Il giudice delle donne viene presentato a Milano martedì 22 marzo all’Unione Femminile: qui i dettagli

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