Premiato alla Berlinale, “Vulcano” di Jayro Bustamante con l’ottima María Mercedes Coroy, racconta come i figli vengono “rapiti” alle madri Maya in Guatemala
Anche se sullo sfondo troneggia sempre il maestoso, incandescente Ixcanul, che riti e leggende descrivono come divinità tutelare dei campesinos, paterna ma sempre incombente, Vulcano del 37enne Jayro Bustamante, regista-sceneggiatore di corti spesso premiati, vincitore dell’Orso d’argento all’ultima Berlinale con questa sua intensa e commovente opera prima, è un film su uno scontro di civiltà. Nel quale si contrappongono gli ultimi discendenti contadini dei Maya, che ancora abitano le pendici delle montagne infuocate del Guatemala, forti della loro antica lingua e di un arcaico sistema di valori e stili di vita, e i mestizos, i meticci da decenni al potere, che usano il “loro” spagnolo come strumento di potere, detenendo peraltro già quello politico e economico.
Il film solleva poi un tema drammatico, il triste record che vanta il paese (400 all’anno, secondo le stime dell’Onu) in fatto di bambini sottratti alle legittime madri (spesso Maya) per essere venduti in patria o all’estero a famiglie ricche. Pratica ignobile in cui si distinguono medici corrotti e funzionari ospedalieri, come quelli che rubano il suo piccolo anche a Maria (la bravissima María Mercedes Coroy), ricoverata d’urgenza nella capitale per il morso di un serpente velenoso, che si risveglia viva, ma apprende di aver perso il bambino che stava per dare alla luce. È il figlio di Pepe, il ragazzo della piantagione che lei ama, che le ha promesso di portarla con sé nel suo viaggio verso gli Usa, il “mondo migliore”, ma che un giorno è sparito senza lasciare, oltre al figlio che porta in grembo, altra notizia o ricordo di sé.
Realizzato dalla Casa de Producción de Panajachel, che ha la sua sede sugli altipiani guatemaltechi, Vulcano ha un passo realistico, a tratti documentario, quasi in presa diretta, nel raccontare la vita nella casa, nel campo, nel paesino di Maria: e in effetti gran parte degli attori fanno parte di quella realtà, e sono stati presi dalla strada, un po’ rossellinianamente (difficile non pensare a Stromboli, visto il tema, anche se il contesto è diversissimo), per poi essere coinvolti in un tirocinio attoriale davvero inedito. Che lo stesso Bustamante descrive così: «Fin dall’inizio del progetto abbiamo lavorato a stretto contatto con la comunità maya, organizzando seminari di espressione, gruppi di discussione attorno ai problemi sociali, e corsi di teatro e cinema, in modo che i partecipanti entrassero nel progetto con una forte padronanza dei rispettivi ruoli nel film, come dei veri attori. Durante il lavoro di preparazione ci è stato concesso il privilegio di un profondo scambio culturale e professionale tra maya e mestizos, come pure un processo di apprendimento linguistico condiviso. Per me è stata un’esperienza illuminante».