Ci vuole l’intelligenza (e il cervello) di un grande poeta per lanciarsi nell’impresa di rileggere – e passare sotto i ferri della critica contemporanea – nientemeno che Shakespeare. Ma W.H.Auden, per un anno intero, con un appuntamento settimanale, fece esattamente questo: con la più totale libertà riflessiva, e un amore tale per la letteratura del bardo, che (a braccio) incantò un pubblico di oltre cinquecento appassionati. Fu una magia. Oggi, gli appunti di chi ascoltò quelle lezioni con l’idea che non venisse perduto quel patrimonio di intuizioni diventano testo. Una bussola – preziosissima – per leggere, incontrare, rileggere, scoprire un poeta grande attraverso gli occhi di un grande poeta.
È emozionante leggere delle Lezioni su Shakespeare scritte da un grande poeta come Wystan Hugh Auden: tornare alle opere del divin bardo accompagnati dalle spiegazioni, dalle associazioni, dai commenti di Auden ci può far scoprire nuove sfumature, indicare altre vie, passaggi illuminanti.
E poi leggere Shakespeare è una garanzia di non annoiarsi mai.
Nell’introduzione scopriamo che nel 1946 il New York Times annunciava che il poeta e critico W.H. Auden avrebbe tenuto alla New School for Social Research un ciclo di lezioni su tutte le opere di Shakespeare, dalla prima all’ultima in ordine cronologico, a cadenza settimanale, per circa un anno.
Non esistono manoscritti di Auden su queste lezioni: la presente raccolta è infatti il frutto degli appunti dei suoi studenti, è stata messa insieme e curata da Arthur Kirsch ed è comparsa per la prima volta in volume nel 2000.
Kirsch ne ricostruisce la genesi e racconta come Auden per preparare le lezioni, fosse armato solo di una copia delle ‘Opere Complete’ di Shakespeare, della vastità prodigiosa della sua cultura e di un impareggiabile humor – ma soprattutto della convinzione che la critica sia “ conversazione dal vivo”.
Essendo frutto di diversi appunti, il testo nel complesso non è omogeneo, alcuni saggi si aprono con riassunti dettagliati dell’opera intera, ma troviamo anche lunghe dissertazioni sul potere, sul complesso di Edipo, sullo stato della commedia elisabettiana: non ci si deve aspettare una dissertazione piana, si viene piuttosto catapultati nella riflessione di Auden quasi mentre questa si fa nella sua testa.
Per godersi il ‘piacere del testo’, che come Roland Barthes anche W. H. Auden prediligeva, un approccio potrebbe proprio essere quello di cominciare da un’opera che ci è piaciuta e che conosciamo bene, e rileggerla prima di Auden, per riuscire a seguire meglio le sue considerazioni, a stupirci della sua intuizione, fino a riconoscerci deliziosamente nei suoi pensieri.
E qui il piacere è garantito, come e più di quando seguivamo le lezioni al liceo o all’università del nostro professore preferito.
Cominciamo con l’ ‘Otello’ e leggiamo quanto ci racconta il grande prof Auden.
(12 marzo 1947)
Shakespeare scrisse le sue grandi tragedie tra i quaranta e i quarantaquattro anni. La sua carriera ebbe varie impennate. Nel primo periodo egli risolve la problematica relativa al dramma storico con l’‘Enrico IV’ e alla commedia con ‘Come vi piace’. Poi si dedica alla tragedia e scrive i suoi grandi capolavori: ‘Otello’, Macbeth’, ‘Re Lear’, ‘Antonio e Cleopatra’ e ‘Coriolano’.
La tragedia shakespeariana presenta peculiarità rispetto alla tragedia greca. Entrambe muovono dall’assunto che il protagonista è un uomo grande o buono, vittima di un difetto che alla fine lo distrugge. La sostanza tragica del personaggio greco è l’’hybris’, che non è semplice orgoglio, ma la convinzioni di essere onnipotenti, pari a un Dio. E la tragedia consiste appunto nella punizione divina per tale audacia. L’invidia degli dei si scatena quando un potente – che da loro trae il suo potere – pretende di farsi uguale a loro.
L’eroe shakespeariano invece soffre per il morso del peccato cristiano dell’orgoglio: pur sapendo di non essere Dio, ci prova ma non ci crede. L’hybris è la manifestazione di un’arrogante sicurezza in se stessi. L’orgoglio è invece la manifestazione di insicurezza, di un’ansia dovuta a carenza di fede, soprattutto nel proprio valore. È un tipo di disperazione di un uomo che non accetta di essere se stesso, che si gioca per superarsi, ma così facendo si tradisce.
E ancora:
C’è anche un altro tipo di disperazione, quella di Jago, un eroe tragico privo di passione che non vuole cambiare, si conosce bene e non si lega a nessuno, ostinandosi a restare fuori dalla comunità.
Di fronte alla novità di questo carattere, Shakespeare modifica la trama originaria dell’Otello, che all’inizio doveva avere come centro la banale gelosia del Moro, e Jago era solo uno strumento. Ma nel corso della scrittura, Shakespeare si appassionò al problema del male in sé e per sé, e non per tornaconto personale. Nella recitazione Jago deve essere semplice, suadente, come un modesto, piccolo agente segreto, pronto a insinuarsi nella fiducia e a mandare in rovina. Declamare, enfatizzare rovina il suo vero carattere, la sua subdola astuzia.
Nella tragedia, accade che un uomo buono sia fatto soffrire da un’incrinatura nella sua bontà. Nel ‘Macbeth’ invece questa convenzione viene ribaltata: è una vena di bontà, di rimorso nel peccato a generare pathos. Lady Macbeth e Macbeth cercano di essere assassini senza essere malvagi.
Le streghe, sono come Jago, rappresentano il mondo della malvagità, possono soffrire, ma la loro trasparenza non traspare – esse traggono piacere da ciò che fanno.
La quantità (e la qualità) delle connessioni tra passato e presente messa in opera dal pensiero di Auden nella riflessione shakesperiana è vulcanica, e a tratti spiazzante: non a caso, al tempo, il ciclo di appuntamenti ebbe così tanto successo da convocare alle lezioni di Auden un tumultuoso e appassionato pubblico di oltre cinquecento persone. L’effervescenza si legge nel corpo di questo libro, che restituisce l’intelligenza e la libertà di quell’anno di incontri veramente formidabili.