La mostra dedicata al padre della Pop Art per tre mesi soggiornerà presso l’Orangerie della Villa Reale di Monza, prima di ripartire verso la Puglia. L’eclettismo del gigante dell’arte americana del ‘900 si racconta attraverso un corpus di oltre 140 opere, che da sole valgono la visita, mentre la location, densa di richiami esoterici, fa il resto.
In alchimia la regola per antonomasia è trasformare materiale grezzo in oro, che altro non è ciò che Andy faceva con le sue creazioni.
Come ci insegna il suo più grande Maestro, la Pop Art è l’arte di ”amare le cose”, di celebrarle esattamente per quelle che sono, ma la mostra intende andare oltre, entrando nel cuore degli anni Sessanta, irriverenti, sognanti, ruggenti e tumultuosi, portando l’accento sulle principali tematiche che lo compongono, dalla presa dei diritti sessuali alla musica, alle celebrità, fino al consumismo di massa.
Così il percorso si apre per tematiche, con una serie di ritratti, volti famosi, celebrità contemporanee all’artista e di facile riconoscimento, quali Mao Tze Tung e Keith Haring o Kennedy, presentati come stereotipi merceologici di lifestyle e status symbol.
Forse non fu a caso che Andy Warhol utilizzò la tecnica della stampa su seta, la serigrafia, in cui il cliché è il tampone necessario all’impressione dell’immagine: il cliché imprimendo colore su materiale pregiato, come la seta, crea un’opera d’arte: una bella metafora.
Andy produceva per vendere e tutto ciò che toccava diventava oro. Ecco l’animo alchimista che la mostra intende evocare.
Rappresentava soggetti esibendone copie identiche e differenti solo per colori, fino a svuotare di significato il soggetto, come se già non fosse bastata la vita a svuotare di significato quella di Marylin Monroe, riprodotta in un fotogramma preso dal film Niagara.
Come la storia racconta i fatti, la storia dell’arte ne illustra le emozioni, le sfumature esattamente come oggi potrebbe fare un film, un racconto: ci fa entrare dentro al periodo, offrendo molteplici linguaggi e spunti di riflessione a seconda del messaggio che la tecnica visiva sentiva più caro alla propria contemporaneità.
Con la Pop Art questo fenomeno diventa un luminosissimo ossimoro: il messaggio si svuota e si amplifica al contempo, si gonfia e si colora come le cose raccontate dalle pubblicità, per indagare la sfera dei bisogni che il consumismo genera: si espande e si insinua nel quotidiano, attraverso elettrodomestici ed emittenti mediatici che sostituiscono spesso in casa lunghe pause di silenzi e solitudini inopportuni, che potrebbero far emergere squarci post bellici e ambizioni femminili soppresse.
L’arte si misura da sempre con il proprio tempo ed ecco che, se nel dopoguerra l’esigenza di espressione si concretizza con un’interiorità apparentemente svuotata in cui non resta più molto da dire e si dichiara l’esistere anche solo attraverso gesti, appena poco dopo il boom economico rende un riflesso patinato di una ripresa economica sognante, in cui tutto si può e si deve avere, in cui l’immagine pubblica diventa status symbol e il sorriso smagliante un cliché.
La Pop Art è colore, finzione, cliché, ostentazione, immediatezza e fugacità mondana, è l’arte di raccontare la leggerezza e vestire il vuoto, inondare di infiniti significati i soggetti, svuotando volutamente di significato il significante e che altresì vuoto non è che il riflesso di insaziabilità, figlio del consumismo. È qui la genialità, il creare opere in modo veloce, riproducibile, vendibile: se è vero che l’arte si cela dappertutto, nulla fu mai più vero come nel periodo in cui anche una lattina di zuppa in vendita al supermercato diventava protagonista indiscussa.
La mostra prosegue, mostrandoci in varie declinazioni la genialità di Warhol nell’interpretare le tendenze e affrontare tematiche che andavano via via sdoganandosi, tra proibito e trasgressione, anche in termini di libertà sessuale, dedicando una sezione espositiva al travestitismo: una sensualità diversa e scalena, che incuriosiva e scomodava al contempo gli animi delle persone “per bene”.
La trasgressione continua ed esplode nei colori della musica. Particolarmente interessante, la sezione dedicata alle copertine di vinili, fra cui quelle dei Rolling Stones, dei Velvet Underground e perfino di Loredana Berté. La musica vendeva, era una macchina da soldi perfetta: con la copertina pop d’artista vendeva anche meglio.
Colori vivaci, sgargianti accompagnano di sala in sala le sezioni e, anche se le opere restano protagoniste, si perde un po’ la raffinatezza nella cura allestitiva. L’allestimento tuttavia rivela, a tratti, un frettoloso making of e ciò toglie un po’ il velo di sacralità che gli allestimenti museografici dovrebbero conservare, ponendosi al servizio delle opere vere protagoniste.
Ma in fondo la spettacolarizzazione è pop. E come diceva una nota pubblicità, per rimanere in tema commerciale, “once you pop you can’t stop”.
Immagine di copertina: Andy Warhol, Self-Portrait, screenprint on curtis rag paper