Essere o non essere un classico? L’abbiamo chiesto ai nostri teatranti d.o.c.
Shakespeare o dell’eternità
Shakespeare nostro contemporaneo, titolava un suo celebre saggio Ian Kott. Niente di più vero: continua ad esserlo, senza bisogno di attualizzazioni. Si chiama eternità. Per cui oggi, mentre si festeggiano in aprile 400 anni dalla sua morte – che poi non si sa neppure chi fosse davvero ma non importa – in realtà ricordiamo quanto egli sia vivo in ogni sfumatura di dolore e di allegria: è uno di quelli che ti dici: aveva già capito tutto. E se chiedi a qualcuno cosa ti ricorda Shakespeare, la prima risposta, che è quella che vale, sarà: l’essere o non essere (ci vuole davvero il punto di domanda? Probabile di no), il monologo cult di Amleto e metafora di tutto il teatro (il Parenti ha da poco organizzato una rassegna variopinta di Amleti di varie etnie e stili).
L’hanno immaginato in mille modi, da Albertazzi che esce dal buio delle quinte vestito di nero col libro in mano (niente teschio, quello appare poi nella scena sublime del becchino, del buffone) al rock singer scelto da Ingmar Bergman, passando per Nekrosius, Branagh, Olivier, Welles, Pacino, Zeffirelli, l’Ambleto memorabile di Testori e mille altri, compreso un essere o non essere scostumato nel vero senso della parola, sotto la doccia nel film di Marco Risi. Forse ci sta pensando anche Mario Martone magari col bravo Elio Germano, mentre Carlo Cecchi sta girando l’Italia con una strepitosa edizione della Dodicesima notte, ricordi d’Illiria della Compagnia dei Giovani quando erano giovani.
La prossima stagione, anniversario o meno, ci saranno come sempre molti titoli scespiriani e ne vengono in mente due: La bisbetica domata con Nancy Brilli e Otello con Elio De Capitani all’Elfo, ma altri se ne aggiungeranno. E ora in aprile rappresentazioni al teatro Piccolo Studio Melato (ispirate al Coriolano e alle Allegre comari di Windsor) e una maxi rassegna di cinema scespiriano alla Cineteca, partendo dall’ultimo Macbeth con Fassbender. Ma il più bell’Essere o non essere è quello offerto dal capolavoro Vogliamo vivere! di Ernst Lubitsch, dove uno spettatore in divisa (Robert Stack) interrompe ogni sera, alzandosi dal posto per andare nel camerino della moglie (per forza è Carole Lombard) del furioso protagonista (Jack Benny). Shakespeare resta, lo dimostrano le centinaia di romei e giuliette in ogni stile e versione con o senza musica (anni fa memorabile uno striscione allo stadio di Napoli. Giulietta era una zoccola!), il più popolare sceneggiatore del cinema.
L’unione tra i media in suo onore verrà festeggiata da noi da una proiezione in alcune sale il 19 e 20 aprile, dell’Amleto con Benedict Cumberbatch registrato al National Theater di Londra dove l’attore lanciatissimo di Imitation game (sul genietto Alan Touring) e trionfante Sherlock per la tv e che sarà presto un nuovo Riccardo III, è stato acclamatissimo: nello scorso ottobre ben 225.000 spettatori si sono collegati in diretta per la ripresa dello spettacolo. Essere o non essere un classico? L’abbiamo chiesto ai nostri teatranti d.o.c.
Amleto 400 – Il monologo più recitato al mondo
To be or not to be. Beato l’attore che per primo ha pronunciato queste fatidiche parole. Magari avrà anche creduto che sarebbe rimasto l’unico. Certo non gli è nemmeno passato per la testa che quattro secoli dopo quel soliloquio sarebbe diventato un icona come la Gioconda o la Divina Commedia. Come fare? Già per un attore, dopo Stanislavskij, è complesso interpretare un soliloquio, dal momento che deve giustificare il fatto di star parlando da solo. Se poi si tratta di questo particolare brano, l’impresa fa tremar le vene e i polsi.
Amleto è l’opera teatrale per eccellenza, il suo protagonista è IL personaggio, e questo è il suo soliloquio principale. Su, avanti, provate a dirlo. Quattrocento anni di allestimenti e attualizzazioni vi stanno guardando. Innanzitutto buttate via quel teschio, anche se tutti pensano che sia lì che Amleto ci parla. Quello è un altro monologo. Troppo difficile? Allora fate così, immaginate di essere quel primo interprete, che Shakespeare stia assistendo alla prima prova di questo suo nuovo lavoro e che fra pochi secondi vi dirà come vuole che lo diciate. Forse è l’unica, e in ogni caso è bello pensarlo.
D’altra parte questo è un sogno solo in parte. Nella scena seguente, infatti, com’è noto, l’autore per bocca del suo protagonista ci fa dono di alcuni fondamenti della pratica scenica. E chi credesse che i difetti che Amleto cerca di emendare nei suoi attori siano vizi interpretativi di altri tempi è degno di invidia, dal momento che evidentemente non si è mai trovato davanti a quegli attori che continuano, istigati da registi pieni di idee, a segare l’aria con la mano e a ridurre in pezzi una passione per fracassare i timpani degli spettatori. Visto che un Ubu val bene un urlo.
Dunque i consigli di Amleto agli attori sono senz’altro ciò da cui si deve partire per rendere giustizia a quel bello e orribile mostro che è l’Essere o non essere.
Dunque eccoci qua. Siamo nel 2016, quei quattrocento anni abbondanti sono davvero passati e l’ennesimo attore ha il compito di ricordare al mondo che è la coscienza che ci fa vili, noi, quanti siamo. Ammettiamolo, sarà pure un brano difficile da recitare, talmente noto da far temere che gli spettatori lo recitino con noi, come una canzone famosa, ma non c’è attore che, informato del fatto che dovrà interpretare Amleto, non proverà una scossa di fierezza e soddisfazione. Eccolo dietro le quinte, il giorno della prima. Magari, se lo scenografo e il regista sono abbastanza spiritosi, indossa anche la gorgiera. Polonio e Claudio lo sentono arrivare e si nascondono. Entra in scena, esegue quelle due o tre azioni fisiche che dovrebbero aiutarlo a far sorgere in lui le immagini giuste e che senz’altro gli danno la possibilità di prendere tempo (che è poi quello che fa Amleto per tutto lo spettacolo), si rivolge al pubblico o fissa un punto dello spazio e apre la bocca. La cosa migliore che gli potrà succedere a questo punto è essere sorpreso. Sorpreso dal fatto che quelle parole lo riguardano, che anche lui, come persona, pensa con sgomento a quel continente inesplorato dai cui confini nessun viaggiatore ritorna.
Se avrà questa grazia, pronunciare quelle parole per sé stesso, libero dalle paturnie dei teorici che ci dicono che la gente non parla da sola e da quelle dei pessimisti secondo cui quel soliloquio l’hanno già fatto in diecimila e quindi non c’è niente di nuovo da aggiungere, cosciente del fatto che l’unica cosa nuova che conti è che lui è un altro essere umano, allora forse avrà senso ripetere per l’ennesima volta che, sì, questo è il problema.
Essere o non essere: solo gioie?
Essere o non essere. E chi lo sa, chi lo ha mai saputo, dannazione. In quella frase si sono spese milioni di elucubrazioni, centinaia di letture, fior fiori di trattati psicanalitici. Tutto a partire da una frase. Roba da brivido, insomma. Per davvero: quando Ludivine Sagnier, nel bel mezzo del macello durante Otto donne e un mistero, pronuncia il legittimo seguito al dilemma («Questo è il problema»), ci manca poco che caschi il mondo. Lubitsch ne fa addirittura il titolo del suo icastico capolavoro (da noi giunto come Vogliamo vivere), e tanti altri lo hanno ficcato – più o meno a forza – nelle loro opere (di tutte le fatture, i tipi e i generi). Ricordo bene come l’ho “scoperto”: da infante credevo fosse un modo di dire, poi verso la terza elementare è arrivato il film di Zeffirelli, e poco più avanti quello di sir Laurence Olivier.
Da lì è stata «tutta una calata», come dicono a Catania per indicare l’ascesa più fluida possibile verso qualcosa: «essere o non essere» è qualcosa che ci siamo ritrovato tra i piedi ben oltre Shakespeare, ben oltre il teatro, ben oltre la cultura. Tutto ne è stato lambito, da psicodrammi amorosi a paranoie condominiali. Letteralmente tutto. E ho ancora il coraggio di chiamarla ascesa? A me pare che ‘sto «essere o non essere» ci abbia causato solo altri dolori, coacervi di angosce, e pochi sollievi – se non quando inserito in contesti di mirabile pertinenza. Del resto, Amleto lo dice poco dopo alla sventurata Ofelia: perché vuoi mettere al mondo dei peccatori? Ecco, di certo non possiamo rimproverarlo di nulla se quella frase ci ha portato soddisfazioni culturali, è vero, ma anche un po’ di sana sfiga…
L’arte non sa fare a meno dei principi danesi
Molti lo immaginano così: attore-dolcevita-nero snocciola battute sul male di vivere teschio alla mano. Una sintesi un po’ naif: il teschio, quello del buon vecchio Yorick, sta in realtà un paio di atti più in là. Zeffirelli gioca col cliché sul grande schermo e mentre l’Amleto Arma-Letale Gibson si dedica al soliloquio con aria allucinata – quasi una premonizione sulle sue future mattane –, ogni tanto l’inquadratura indugia sulle ossa di un sacrario. Più divertente allora la scelta teatrale di Eimuntas Nekrošius nel trasformare il proverbiale cranio in noci di cocco nel bellissimo Hamletas, spettacolo che a Milano si è rivisto al Franco Parenti nel 2012.
Cinema e teatro sembrano poi rubarsi la scena nella celeberrima versione di Kenneth Branagh tanto che viene da chiedersi se il monologo allo specchio ha per tema un dilemma esistenziale o meta-critico: l’uomo (l’attore teatrale del qui e ora) riflette sulla sua immagine (quella cinematografica). Sempre a proposito di quel titolo è da ricordare la mirabile interpretazione di Massimo Popolizio chiamato a rendere giustizia, nel doppiaggio nostrano, alla performance dell’attore/regista nordirlandese. E benché molti altri potrebbero essere o non essere gli esempi da citare nel solco della tradizione, più adatta al contemporaneo è senz’altro una rivisitazione irriverente. Nanni Moretti che affronta con fare indolente il dilemma di Ecce Bombo fa al caso nostro: “Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente?”. Ofelia, dammi retta, se sei triste è meglio consolarsi con una Sacher.
Con i monologhi del Bardo non si scherza
Da tempo sono molto affezionato al celebre To Be or not To Be. Mi piace ricordare che a diciassette anni lo imparai a memoria nella sua versione originale e lo interpretai davanti alla mia classe del liceo durante un’interrogazione. Il mio approccio a quelle parole consiste in un atteggiamento da attore e da spettatore. In entrambi i casi ritengo sia un grande organismo vivente oltre i confini del suo contesto storico-letterario; al di là della situazione specifica in cui Amleto si trova in quel momento, ciò che conta per me è l’eterno interrogativo sulle sfumature della vicissitudine umana.
Per quanto possa sembrare strano, non deve essere necessariamente un’analisi drammatica o pessimista; la modalità espositiva della riflessione è molteplice, in grado di rivelare di volta in volta colori insoliti e interessanti, i più nascosti nel mistero del soliloquio. Io ho sempre prediletto Kenneth Branagh e la sua trasposizione cinematografica della tragedia amletica, mio primo incontro con Shakespeare.
Ascoltandolo numerose volte, ho continuamente percepito accanto all’impostazione generale una serie di toni minuscoli, silenziosi però certamente curiosi, intriganti che mi hanno così convinto dell’estrema profondità di questo testo; può “essere o non essere” una beffarda presa di coscienza, lo sguardo in qualche modo divertito di Amleto dopo un’amara e ponderata consapevolezza, il desiderio, seppur velato, di superare il limite della sofferenza e degli ostacoli esterni; non solo dunque la rappresentazione di un’esistenza destinata al dubbio se auto-eliminarsi o continuare a sopportare, ma anche la volontà di annullare il proprio involucro di difficoltà alla ricerca di qualcosa che renda liberi e uomini autentici al di là di ogni cosa.
Forse rispetto ad altri monologhi del Bardo, questo è davvero il più sciolto, attuale in ogni epoca e adattamento, senza contorni troppo rigidi. Non può essere comunque trattato con leggerezza; l’importante è non perderne mai di vista il valore umano e rispondere con disinvoltura e cognizione a una o più domande che attori, registi, autori inevitabilmente incontreranno.
Un Amleto… performante
To be, or not to be, that is the question… anche solo l’incipit rimanda immediatamente ad Amleto. Tutti conosciamo il monologo che porta il nostro protagonista a riflettere sui vantaggi e gli svantaggi dell’esistenza, moltissimi, forse troppi lo hanno messo in scena.
Un gruppo di Ferrara, Collettivo Cinetico, ha riproposto i temi cari a quest’opera sotto forma di performance, un’ unione di teatro, danza e arti visive. Hanno riscritto lo spettacolo, scomposto il monologo, attualizzato il tema, rotto la quarta parete. È il pubblico a contendersi il ruolo di Amleto, i candidati scelti tra gli spettatori si sfidano in una serie di prove che sintetizzano l’opera. Impossibile controllare ciò che succede, impossibile basarsi su competenze preacquisite, tutti i concorrenti presto o tardi finiscono per essere nella stessa condizione in cui si trova Amleto nel famoso monologo.
Un lavoro nuovo, interessante, intelligente, studiato. Io rivedo la scena nuda, cruda e tuttavia reale quando sento rievocare le parole del monologo.