In attesa della versione di Michieletto, andiamo in pellegrinaggio a Berlino per vedere il capolavoro di Brecht nella versione dell’immaginifico Bob Wilson.
«Life is a cabaret» cantava la Minnelli al Kit-Kat, il locale fonte di ispirazione dell’attuale versione berlinese latex friendly. La formula è consustanziale a Mackie Messer, il masnadiere, star da tre soldi risorto al Berliner Ensemble, e non solo grazie al messaggero a cavallo che alla fine gli risparmia l’impiccagione. «Mostra i denti il pescecane!» avrebbe detto Modugno, e c’era Strehler. A Berlino non si traduce, lo squalo è der Haifisch e l’unica variazione eterodossa è l’azzurro tecnologico di Bob Wilson, da vedere ancora a Berlino il 10 e 11 aprile e a Istanbul il 13 e 14 maggio.
A meno di un mese dal debutto di Damiano Michieletto – il 19 aprile al Piccolo – sembra sensato correre in pellegrinaggio in Germania, nel teatro di Brecht, per un’Opera da tre soldi da dare i numeri, vista in Italia solo a Spoleto nel 2007 e a Reggio Emilia nel 2010, per la lungimiranza di Daniele Abbado. La storia è nota, le canzoni pure e chi non sa il tedesco si gode comunque luci e canzoni, per il resto si può anche fare finta di niente: tanto la noia sta altrove. Poi fuori da teatro la statua di Brecht saluta tutti lo stesso e fischiettando Moritat – non ce se ne libera per giorni – si può entrare in un pub sulla Sprea e ordinare fegato alla berlinese o salsicce di Norimberga.
Il solido, solito immaginario di Bob Wilson entra in impensabile risonanza con Brecht, Weill e Weimar, rivelando un’autenticità che si sbarazza delle aggettivazioni termiche dette di solito dopo i suoi spettacoli: gelido, freddo, algido. Al contrario il suo espressionismo è controllato ma sempre tagliente, tra una favola di Edward Gorey e una caricatura di George Grosz. E lo straniamento arriva, nella forma deliziosa di questa sua esasperata stilizzazione, che sarebbe un pregiudizio confinare solo nei pressi del minimalismo musicale di Philip Glass, quel barocco new age di Einstein on the beach, spettacolo capolavoro che proprio Wilson mise in scena nel 1976. Invece con le ariette di Kurt Weill può venir fuori tutto il grottesco di Wilson, capace di ritagliare sui suoi fondali lo sguardo sprezzante di Brecht, che ormai mi sembra abbia gli occhi azzurri.
Biondo e al limite dell’intersex, il Mackie di Stefan Kurt è tutto un glitter and be gay. Non si scompone nemmeno all’acme del pericolo, nell’abbraccio della forca, quando nomina profeticamente banche e lavoro impiegatizio, idoli da demistificare e talvolta scassinare, sempre con quel diabolico sorrisetto sarcastico. E per essere un attore che canta, come voleva Brecht, canta davvero. Splendore di presenza più che di tecnica, Angela Winkler ha una vocina struggente e la sua Salomonsong cantata in proscenio a sipario calato è una macchina del tempo che sa di mondi antichi ormai spazzati via. Indimenticabili Veit Schubert e Axel Werner, Peachum e Brown in prestito dal cinema di Weimar, come l’abbondante sinuosità della signora Peachum Traute Hoess.
Quanto a noi, fu sessant’anni fa che Strehler, regista in cerca d’autore, trovò Brecht e lo portò in via Rovello: da allora il Piccolo seppe trasformare l’attualità in presente, con taglio sempre straniante ma «gastronomico», brechtianamente epico anche quando si trattava di Pirandello, e I giganti della montagna possono proseguire persino nell’ultimo atto non scritto con silenziose marionette (la Ilse di Valentina Cortese).
Meno politico, il lavoro recente di Michieletto sembra piuttosto interessato a uno scavo nelle deformità del reale, come in un teatro della crudeltà sempre aspro e ripugnante. I movimenti che si inceppano nel fango à la Goya di Valle-Inclán con Divine Parole, il sangue e la violenza del Guillaume Tell protestato al Covent Garden l’anno scorso fanno pensare a un prolungamento della sua linea più cupa, lontana dalla lettura chapliniana e malinconica del mago Wilson.
(Immagini di Lesley Leslie-Spinks)