Helen Mirren, ebrea austriaca fuggita dai nazisti a Los Angeles, torna (con l’avvocato) 60 anni dopo a Vienna per recuperare il prezioso ritratto della zia
La storia di come i nazisti abbiano depredato l’Europa delle sue bellezze artistiche ha meritato più una trasposizione cinematografica. Dopo George Clooney, cimentatosi nella lodevole impresa in Monuments Men senza ottenere tuttavia grandi risultati, il regista inglese Simon Curtis si concentra in Woman in Gold su un aspetto più particolare di questa vicenda d’ampio respiro, la doverosa restituzione dei capolavori in possesso delle famiglie ebree derubate e deportate poi nei lager. Sfortunatamente il film è un perfetto esempio di vecchia Hollywood e uno dei suoi peggiori risultati, un dramma lineare, privo di originalità o sentimenti genuini, che svilisce una reale odissea legale in un banale Bildungsroman sulla formazione di un piccolo avvocato californiano alle prese con una causa da 135 milioni di dollari.
Il titolo si riferisce ad uno dei più celebri dipinti di Gustav Klimt, Ritratto di Adele Bloch Bauer, poi modificato in La dama in Oro, per nascondere le origini ebree del soggetto. La vicenda inizia nel 1998 a Los Angeles, dove Maria Altmann (Helen Mirren), nipote della sopracitata Adele, si è trasferita prima della Seconda guerra mondiale in fuga dalla nativa Austria. Dopo la morte della sorella, Maria trova alcuni documenti legali relativi alla proprietà di opere confiscate alla sua famiglia dai nazisti, ora orgogliosamente in mostra al Belvedere di Vienna. La donna ingaggia quindi il figlio di un amico, il giovane e poco rampante avvocato Randy Schoenberg (Ryan Reynolds), per aiutarla a riavere i dipinti che le spettano “di diritto”. Pur sapendo poco di arte, e nonostante la evidente disapprovazione dell’importante studio legale che lo rappresenta, Randy riesce a far restituire a Maria, dopo molte battaglie in tribunale in Austria e negli Usa, il cimelio di famiglia, che si scoprirà essere uno dei capolavori dell’Art Nouveau.
Dopo il debutto cinematografico con Marilyn, film che senza la presenza iconica della Williams sarebbe ricordato come una svilente trasposizione degli anni d’oro del cinema americano, Simon Curtis non mostra grande maturità registica, accontentandosi di una narrazione piatta che lascia ben poco spazio all’estro. Nonostante un’accozzaglia di flashback mal gestiti di Maria novella sposa (Tatiana Maslany) in fuga dalla Vienna nazista, la suspense resta una chimera, e altre immagini di un passato ancora più lontano, che descrivono il rapporto tra Maria bambina (Nellie Schilling) e la zia immortalata da Klimt, non forniscono giustificazioni convincenti sul sovrumano e per lei doloroso accanimento nella sua battaglia legale . Allo stesso modo Randy è ritratto in visita al memoriale dell’Olocausto di Vienna senza che venga fornito alcun indizio sui motivi che lo hanno improvvisamente condotto a tale consapevolezza del proprio passato. Anche perché il fatto che sia il nipote di Arnold Schönberg resta solo un dettaglio potenzialmente affascinante ma poco sfruttato: è un personaggio scipito, un “uomo senza qualità” emulo del ruolo salvifico interpretato da Steve Coogan in un biopic drammatico ben più riuscito, Philomena.
Woman in Gold, vicenda declinabile sotto molteplici aspetti (l’evento storico, la condizione degli ebrei durante il regime, la vita dei salotti della Vienna d’inizio Novecento, il saccheggio delle opere d’arte), si rivela alla fine un film parco d’emozioni, se non piatto, telegrafico. Molti passaggi appaiono oscuri o taciuti e non mancano cadute di stile come l’inspiegabile paragone fra il saccheggio dell’opera di Klimt da parte dei nazisti e il destino della Monna Lisa, che come è noto fu venduta da Leonardo da Vinci a Francesco I, e non saccheggiata da Napoleone in una delle sue razzie in suolo italico, come erroneamente molti credono.
Woman in Gold, di Simon Curtis, con Helen Mirren, Tatiana Maslany, Nellie Schilling, Ryan Reynolds