Altro che principesse da salvare: è la carica della bad girls a farsi largo al cinema, senza troppi complimenti. E non sono soltanto le star come Johansson, Teron e Jovovich: tenere d’occhio Gal Gadot o Noomi Rapace
Lara Croft non è mai stata il mio tipo. E non per una qualunque forma di maschilismo o teoria sui generi sessuali. È proprio che, sognando avventure nella giungla e trappole mortali in templi nascosti, immaginare di farlo in hot pants e decolleté esplosivo mi pareva una cosa quantomeno bizzarra. Forse è colpa dell’immaginario con cui sono cresciuto. Da accanito cacciatore fin da piccolo di pupazzetti dalle serie animate degli anni ’80, mi rendo conto che in effetti la donna guerriera la si incontrava sempre, armata di bastone o pugnali, esperta di arti marziali o magia oscura. Ma la si comprava più per spirito di collezione che credendoci davvero, e poi, puntualmente si finiva col lasciarla lì nello scatolone, o a relegarla all’ingrato ruolo della bella da salvare. Ecco. Da che mondo e mondo, nel mio immaginario di maschietto sognatore e un po’ nerd, l’eroe salvava, la principessa si faceva salvare. Punto.
Hollywood, che ti è successo?
A dire il vero, qualche avvisaglia c’era già stata, verso la fine degli anni ’80: Aliens, il secondo (e il migliore) episodio dell’epopea inaugurata da Ridley Scott e magistralmente portata avanti dallo specialista di kolossal fantascientifici James Cameron, aveva trasformato il racconto corale del primo capitolo in un vero e proprio testa a testa tra due “diversamente madri”, la mostruosa creatura disegnata da H. R. Giger e una Sigourney Weaver decisa ad approfondire ulteriormente un personaggio più che carismatico, e a lasciare di sé un’immagine ben differente da quella dell’ironica femme fatale posseduta, ammirata in Ghostbusters solo due anni prima. Ma se la progenie dell’orrenda regina aliena ha contribuito a trascinare stancamente la saga, nel corso dei decenni, fino alle ultime evitabilissime puntate, l’immediata discendenza del character Ripley si conta a fatica sulle dita di una mano. Nell’action movie di fine ventesimo secolo la donna combattiva è un’ottima spalla (la bodyguard Angela Bassett in Strange Days, che pure è diretto da una donna, la “dura” Kathryn Bigelow), a volte persino alla pari col protagonista maschile, ma non ha praticamente mai il palcoscenico tutto per sé. È simpatica, coraggiosa, spigliata. Ha lo scatto d’orgoglio dell’emancipata ma non troppo, si libera da sola dalla prigionia o magari salva l’eroe quando persino lui pare trovarsi in difficoltà, ma nulla più.
Eppure, il cinema d’avventura di quegli anni, visto forse come un genere prettamente maschile, lancia comunque sul grande schermo giovani attrici che in cima ai propri requisiti esibiscono, prima della bella presenza, doti recitative già più che evidenti, oltre che il carattere e la determinazione di chi è destinato al successo. Emblematico è l’esempio della produzione franco-statunitense Leon, un vero e proprio jackpot cinematografico: nel 1994 porta alla ribalta mondiale una ragazzina, Natalie Portman, al suo esordio su pellicola ma già dalle capacità e carisma fuori dal comune, e un regista, il furbo Luc Besson, che proprio negli anni Novanta conoscerà l’apice delle sue fortune. Furbo perché pochi sanno che quella che ancora oggi è considerata la sua opera più significativa per certi aspetti altro non è che un remake: la storia del killer in fuga, improvvisato protettore per compassione di un bambino in pericolo di vita, l’aveva già raccontata nel 1980 John Cassavetes in Gloria, con Gena Rowlands, soltanto, guarda caso, a generi invertiti. D’altra parte lo stesso Besson aveva già dimostrato, quattro anni prima, di non disdegnare affatto le combattenti in tacchi a spillo e pistola, raccontando per la prima volta (ne saranno tratte ben due serie televisive, una canadese e una americana) le vicende della spietata killer Nikita, interpretata da Anne Parillaud, premio César e David di Donatello come miglior attrice protagonista.
Ed è sempre Luc Besson a portarci al presente. Sì, perché è proprio una sua vecchia fiamma, quella Milla Jovovich che ne Il Quinto Elemento aveva incantato tutti con le sue doti acrobatiche e il fascino androgino, a guidare oggi, insieme a Kate Beckinsale, la carica delle bad girls in tuta di latex e stivali, tutte moto, pistole e calci volanti: rispettivamente protagoniste dei cinebaracconi Resident Evil (giunto – forse- al suo capitolo conclusivo alcuni mesi or sono con l’ultimo The Final Chapter, ma mai dire mai) e Underworld (ora nelle sale con il quinto capitolo della saga, Blood Wars), le due esili ma combattive star hollywoodiane prestano ormai stabilmente volto e grinta a veri e propri franchise di consumo, tenendo in piedi ottovolanti cinematografici altrimenti senza alcuna pretesa di trama o sceneggiatura plausibile, se non quella di intrattenere il pubblico con giri di giostra sempre più spettacolari fuori e vuoti dentro.
Un’altra diva ormai stabilmente dedita alla formula calci pugni e spari è l’esplosiva Scarlett Johansson, capace però di giocare, indipendentemente dal personaggio (e a differenza del quasi asessuato duo Beckinsale/Jovovich), con una femminilità e una sensualità che sarebbe comunque impossibile nascondere. Membro titolare e insostituibile della galassia dei cinecomic Marvel, nella parte dell’affascinante spia russa Vedova Nera, pare ormai averci preso gusto: dopo aver vestito i panni del giustiziere geneticamente modificato in Lucy (guarda un po’, ancora di Luc Besson), concede in questi giorni il bis nelle sale con Ghost in the Shell, adattamento dall’omonimo e famosissimo manga di Masamune Shirow, visivamente più che ben fatto e sicuramente imperdibile per gli amanti del cyberpunk più classico alla William Gibson. Percorso inverso è invece quello compiuto da un’altra star hollywoodiana decisamente poliedrica, quella Charlize Theron che, approdata all’action movie da protagonista con la fantascienza di Æon Flux – Il Futuro Ha Inizio e ammirata al volante nel deserto di Mad Max: Fury Road, troveremo quest’estate nel ruolo dell’inarrestabile spia dell’MI6 all’indomani della caduta del muro di Berlino in Atomica Bionda, titolo pessimo, il film speriamo un po’ meno.
Ma non sono soltanto le stelle più grandi a brillare di luce propria: se la prossima Mary Poppins Emily Blunt ha già dato prova di saper reggere senza batter ciglio armature avveniristiche e fucili d’assalto (oltre al confronto con due istrioni come Tom Cruise e Benicio del Toro) in Edge of Tomorrow – Senza Domani e nel notevolissimo Sicario, altre attrici emergenti sembrano più che determinate ad affacciarsi al botteghino dalla strada più dura. La bellissima attrice e modella israeliana Gal Gadot, dopo aver salvato, spada alla mano (Kill Bill docet) il salvabile nel disastroso e sconclusionatissimo Batman v Superman: Dawn of Justice si è conquistata sul campo uno spin off interamente dedicato alla sua Wonder Woman, in uscita il prossimo giugno, a pochi mesi di distanza dal kolossal Justice League, che pure la vedrà tra i protagonisti.
Di tutt’altro genere è invece il prossimo Codice Unlocked di Michael Apted, in distribuzione in Italia dal 4 maggio, con una Noomi Rapace (già vista in Prometheus e nell’originale svedese di Uomini che Odiano le Donne) in versione Jason Bourne in gonnella, al centro di un thriller internazionale ad alta tensione, il cui finale “socchiuso” lascia intendere (sperarci sarebbe forse un po’ eccessivo) la possibilità quantomeno di un sequel, se non l’inizio di una saga vera e propria. Giusto il tempo di dimostrare che non sempre è obbligatorio imitare i maschietti per poterli prendere, quando serve, a sonori calcioni nel didietro.