Women’s march: thank you mister President!

In diarioCult, Weekend

In giro per il mondo, da Baltimora a Beirut, oggi saranno più di un milione e noi saremo tra loro. Perché bisogna ringraziare Trump: per i nostri Pussyhats, per le serate passate a sferruzzare, perché ha fatto tornare ad un sacco di gente, e le donne in prima fila, la voglia di far sentire la propria voce

Si chiamano Pussyhats e sono cappellini di lana rosa fatti a maglia o all’uncinetto con la vaga forma dell’organo genitale femminile, da indossare alla manifestazione di oggi a Washington e nelle tante altre città in cui si è scesi in piazza per protestare contro Trump. Pussy è una parola dispregiativa, usata da Trump durante la conversazione con il conduttore televisivo su quel famoso pullman, in cui disse, tra le altre cose: “I grab women by the pussy”, che vuol dire – scusate la volgarità – che lui piglia le donne per la figa. Frase appunto talmente orrenda che è quasi irripetibile.

Pussy Hats

Il movimento pussyhatsproject.com ha deciso di usare la stessa parola per potersene riappropriare, farsela di nuovo sua, e riprendere il potere. “Le donne sono maltrattate nella società. Non potremmo mai ottenere uguaglianza di diritti se ci portano via le nostre pussies o se la nostra femminilità viene negata. Per ottenere giustizia dobbiamo pretendere di essere trattate con dignità. Il nostro corpo appartiene solo a noi“. È questa la missione del movimento, che incita donne e uomini a prendere i ferri o l’uncinetto e a fare più cappellini possibili. Il sito propone di donare i cappellini e di compilare un bigliettino da includere in cui c’è il nome della persona che lo ha fatto e uno spazio per lasciare un commento su un problema legato alle donne che sta particolarmente a cuore. Infine, c’è anche il modello da seguire per fare il cappellino a maglia. Il movimento si può insomma riassumere con una semplice frase: LAVORATORI (A MAGLIA) DI TUTTO IL MONDO, UNITEVI!

Da quando questa iniziativa è stata lanciata a novembre, ci sono state migliaia di persone che si sono incontrate sul divano di qualcuno o a un caffè e insieme hanno lavorato a maglia, sorseggiando un rosso della California. Io ho organizzato il mio pussycat party martedì scorso, a casa mia, con otto amiche che ho poi incontrato ancora qualche giorno fa per preparare cartelloni. Così nascono i movimenti: con un progetto semplice che tutti (o quasi) possono fare per sentirsi partecipi di qualcosa di importante. Il secolo scorso le donne native americane si incontravano per cucire insieme delle trapunte e per parlare dei loro problemi e delle ingiustizie sociali. Adesso si fanno i cappellini a forma di pussy, ma l’idea è la stessa: confrontarsi, organizzarsi, sentirsi parte di qualcosa che potrebbe diventare importante.

E questo è solo uno dei movimenti che si sono creati dalle elezioni di Trump: si sono rinvigoriti molti gruppi di minoranze che saranno senz’altro bersagli nei prossimi quattro anni, per esempio il movimento LGBTQ, forse il più a rischio, date le scelte governative del presidente di gente che crede che l’omosessualità sia un peccato e che si debba curare.

Sabato ho portato mia figlia Emma di dieci anni alla manifestazione anti-Trump indetta dal movimento gay di Boston. L’ho portata prima di tutto perché, siccome abbiamo deciso di portarla a quella di oggi, volevo che lei sapesse cosa vuol dire “andare in manifestazione”, ma anche per calmare la sua ansia che sia una cosa pericolosa.

Prima di andare, Emma ha preso i suoi pennarelli e un foglio del suo album e ha preparato un cartello: LOVE HAS NO GENDER, che si è portata in metropolitana fino al Boston Common, davanti alla State House, il palazzo in cui si riunisce il corpo legislativo statale. C’erano bandiere con i colori dell’arcobaleno che sventolavano, tantissima gente (soprattutto giovani) e una band di fiati che suonava musica di New Orleans, seguita da gente che ballava e batteva le mani a ritmo. Le persone con il megafono urlavano slogan che tutti ripetevano.

Il mio preferito è stato: WE ARE HERE! WE ARE QUEER! WE ARE FABULOUS! SO DON’T FUCK WITH US. Emma mi ha guardato un po’ preoccupata e le ho detto che andava bene, certo che poteva dire fuck anche se è una parolaccia assolutamente vietata ai bambini della sua età, ma si è rifiutata di farlo, credo per vergogna. Eravamo vicino a due ragazzi con un tamburo fatto con dei secchi, e a una persona transgender con un megafono rosso che intonava i vari slogan da ripetere. Emma era all’inizio spaventata dalla ressa a dalla voce di centinaia di persone che sbraitavano parolacce, ma poi è entrata nella parte, e tenendo il suo foglio dell’album alto, ha cominciato a urlare anche lei: THIS IS WHAT DEMOCRACY LOOKS LIKE! Oppure: OUT OF THE CLOSETS AND INTO THE STREETS! Mi ha chiesto cosa c’entrassero gli armadi con la manifestazione, e le ho spiegato che ‘coming out of the closet’ significa dichiararsi gay senza paura delle conseguenze e uscire quindi dal nascondiglio.

Mi ha chiesto come mai c’è gente che non ammette di esserlo, e le ho spiegato che tante persone discriminano i gay, e che alcuni genitori rifiutano loro figli gay, per cui loro per paura si nascondono. E che alcuni politici nell’amministrazione Trump sono omofobi, cioè odiano i gay. È rimasta pensierosa per un attimo: non capiva cosa c’entrasse di chi ci si innamora con la discriminazione.

Mi chiede se secondo me urleranno anche il suo, di slogan, quello scritto sul cartellone. Le dico, quasi per scherzo, di andare a chiederlo alla persona con il megafono, pensando che non avrebbe mai osato chiedere. Invece mi fa: “Vieni con me”, si avvicina e chiede: “Excuse me?”. La tipa si volta e vede una bimba, l’unica in tutta la manifestazione, e le sorride. Emma le chiede se può proporre il suo slogan. “Of course”, le risponde appena prima di urlare dentro il megafono LOVE HAS NO GENDER! e tutti a ripetere LOVE HAS NO GENDER! Fanno a turno, la persona con il megafono e le centinaia di persone attorno a noi: prima lo dice lei, e poi lo urlano gli altri. La cosa va avanti per un bel po’. Emma è al settimo cielo. Poi la tipa le passa il megafono, Emma schiaccia il pulsante nero e urla il suo slogan, seguita da tutti. Io, dalla commozione e da una fierezza mai provata prima, ormai piango spudoratamente. Emma mi chiede: “Why are you crying?”, ma io come faccio a spiegarle che sono anni che a cena parlo di diritti per le donne e per le minoranze, cercando disperatamente di piantare semi importanti nei cervelli e nelle coscienze delle mie figlie e che vederlo germogliare dietro un megafono rosso a una manifestazione LGBTQ è un momento sublime?

Anche stamattina, Emma e sua sorella sono uscite di casa piene di entusiasmo, di cartelloni fatti un po’ così e di voglia di fare sentire la loro voce. Per cui, thank you, mister President. Grazie per i pussyhats, per i cartelloni fatti e quelli da fare, per gli slogan urlati a squarciagola, per la serata di martedì passata in ottima compagnia a lavorare a maglia, per le coscienze che si stanno svegliando, per il germoglio che finalmente cresce un po’ dappertutto.

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Immagine nel testo: Pussyhats di Meredith Nutting

Immagine di copertina: Trump Tower di Guillaume Flament

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