Alla Galleria Carla Sozzani sono esposte le fotografie del World Press Photo 17, il più importante premio di fotogiornalismo del mondo. Una buona occasione per riflettere sugli obbiettivi e i ferri del mestiere.
Post-truth’ was Oxford Dictionaries Word of the Year for 2016. It was awarded after a tumultuous year in which emotional appeals and personal opinion seemed to trump evidence and fact. In contrast, the World Press Photo of the Year, and all the other 2017 Photo Contest winners, demonstrate forcefully that accuracy and fairness matter. (Lars Boering, dai testi del catalogo di quest’anno)
Il World Press Photo, nelle parole del suo Managing Director Lars Boering – intervistato da noi l’anno scorso sul nuovo codice etico pensato per salvare la credibilità del fotogiornalismo dalle sempre più frequenti manipolazioni – continua a proporsi come baluardo in un mondo in cui il termine ‘post-verità’ è diventato parola dell’anno 2016.
La mostra itinerante dedicata al premio fotogiornalistico più importante del mondo, ormai alla 60esima edizione, è stata inaugurata lo scorso 6 maggio anche alla Galleria Carla Sozzani di Milano, per il 23esimo anno. E non è solo un insieme di immagini di qualità, appese ai muri bianchi di una galleria, ma è anche un’occasione per vederci restituito il mondo in cui viviamo e un ottimo spunto per riflettere sullo stato di fotografia e fotogiornalismo.
Di appena pochi giorni prima è l’ultimo eclatante caso di falsificazione, quello del reporter indiano Souvid Datta, classe 1990 e vincitore di una serie di premi internazionali, smascherato dopo qualche anno nelle sue pratiche “creative” via Photoshop. Pratiche bandite dal mondo fotogiornalistico, che Datta ha riconosciuto come errore e giustificato in modo contrito, ma anche piuttosto ingenuo, tanto da rendere chiaro che c’è ancora parecchio da dire (ed educare) sul tema.
“Truth is at the heart of what we do and can never be taken lightly […] Trust is at the core of journalism, it is what the audience wants and we should all fight to ensure it is secure and valued” (ancora Lars Boering, dai testi del catalogo di quest’anno)
Lo stesso World Press Photo si era trovato a dover ritirare il riconoscimento assegnato nel 2015 a Giovanni Troilo, vincitore del primo premio nella categoria Contemporary issues con la raccolta intitolata La Ville Noir – The Dark Heart of Europe, reportage sulla vita dissoluta degli abitanti di Charleroi, in Belgio. A farlo squalificare una didascalia errata e l’ammissione che molte delle scene fotografate erano state ricreate appositamente dal fotografo, violando le regole del premio che escludeva la staged photography. Da qui l’impegno nell’elaborare un sistema di regole e controlli più stringenti.
E così, sicuri oggi dell’impegno nelle procedure di verifica sulle submissions inviate alla giuria del World Press Photo, quest’anno oltre 80mila da 5034 fotografi di 125 Paesi, possiamo goderci la mostra ospitata in Corso Como con una fiducia che in altri ambiti, saturi di bufale e di ambiguità, fatichiamo ormai a mantenere.
Il vincitore di quest’edizione con An Assasination in Turkey è il reporter turco di AP Burhan Özbilici (1955), che ha avuto il sangue freddo di documentare l’omicidio dell’ambasciatore russo in Turchia Andrei Karlov del 19 dicembre scorso per mano dell’attentatore Mevlüt Mert Altintas.
Una decisione controversa in giuria, presieduta quest’anno da Stuart Franklin, fotografo di Magnum Photos: Franklin, temendo che quella fotografia potesse esaltare la propaganda terroristica, aveva votato contro, spiegando le sue ragioni in un articolo uscito sul Guardian.
“Burhan Özbilici, an Associated Press staffer from a country where press freedom is constantly under assault, also had one chance. He did his job heroically that evening in Ankara. That’s not in question. But what is controversial is that an image depicting a premeditated murder, staged at a press conference to maximise publicity, is World Press Photo of the Year”. (Stuart Franklin, The Guardian)
Indiscutibile dunque il coraggio di Özbilici, che si è trovato al posto giusto quasi per caso, su invito di un’amica che gli aveva dato appuntamento all’inaugurazione dove poi è successo tutto. A farlo vincere, però, è stata la convinzione della maggioranza della giuria che quello scatto potesse sintetizzare al meglio uno dei temi più stringenti dell’attualità: i rapporti tra Turchia, Russia e Siria. In mostra una sequenza che racconta i momenti precedenti e successivi allo sparo, compresa la reazione dei presenti, atterriti e spaventati.
Ci sono immagini molto forti anche per quest’edizione, che segnano argomenti altrettanto centrali nella cronaca di un anno denso come il 2016, dal dramma delle migrazioni e dei rifugiati, raccontati da Vadim Ghirda, Daniel Etter, Santi Palacios, Magnid Wennman e tanti altri, tra confini europei, campi rifugiati e barconi in preda al mare, a immagini di guerra che arrivano da Pakistan, Siria, Iraq, in cui il sangue, spesso dei bambini, si mescola alla polvere dei bombardamenti e alle pallottole.
Ci sono le conseguenze di Zika, in Brasile, raccontate da Lalo de Almeida, e la mattanza dei tossicodipendenti nelle Filippine vista da Daniel Berehulak. Ma ci sono anche la Cuba che saluta Fidel Castro di Tomás Munita, i tornei di scacchi giovanili della Repubblica Ceca documentati da Michael Hanke e i panda di Amy Vitale. Ad alleviare la tensione che cresce nel percorso mostra, gli scatti premiati nella sezione sportiva, compreso il taglio del traguardo di Usain Bolt nella versione di Kai Oliver Pfaffenbach, e la maestosità— anche quando ferita — del mondo animale nella sezione natura.
Storie come quella che ha vinto il World Press Photo of the Year 2015 o come quella raccontata dall’italiano Giovanni Capriotti – uno dei quattro vittoriosi, insieme a Francesco Comello, Antonio Gibotta e Alessio Romenzi, tra i tantissimi italiani che anche quest’anno hanno partecipato inviando le proprie fotografie – che si è aggiudicato il primo premio tra le storie della sezione sport, Boys will be boys, sulla prima squadra di rugby gay-friendly di Toronto, sono difficili da portare in giro in tutti i luoghi in cui la mostra va in scena.
In Paesi come il Pakistan e l’Afghanistan, per motivi religiosi e culturali, come in Iran, mostrare l’immagine di due uomini che si stavano baciando nel 2015 è stato impossibile, spiega Laurens Korteweg, Director of Exhibitions and education della World Press Photo Foundation. Banditi i temi LGBT, fotografie in cui si intravedono genitali in quei Paesi «dove c’è persino la pena di morte per chi appartiene a quelle categorie».
E allora si trovano escamotage e compromessi, perché, racconta, la loro missione è di far vedere tutto in tutti i Paesi: così alcune fotografie, che potrebbero creare problemi, vengono staccate dalla mostra per essere esposte in luoghi alternativi, per esempio nell’ambasciata olandese della stessa città.
Anche Stati Uniti e Canada pongono alcune limitazioni, per esempio in caso di scene troppo violente, che trovano posto in sale specifiche affinché i bambini possano non imbattersi in quelle immagini. «Si tratta di differenze culturali – continua Korteweg –. In Olanda o in Italia siamo già abituati a vedere quelle immagini nei giornali e ci rendiamo conto dell’importanza di mostrarle alle persone. Perché è il nostro lavoro, perché è quanto sta succedendo. Perché è la realtà. E possiamo cercare di coprire gli occhi dei nostri figli, ma lui o lei lo scopriranno comunque. Non c’è modo di negarlo e per me è molto importante che si cresca nella verità, sapendo come va il mondo».
Chiedo a Korteweg se il nuovo codice etico, tanto celebrato lo scorso anno, ha funzionato ed è stato rispettato maggiormente rispetto agli anni precedenti. «Quello che sentiamo come World Press Photo – risponde lui – è di avere una grandissima responsabilità». Nel mondo ogni media ha un differente codice etico, non esiste un accordo globale su quello che si può o non può fare. «C’è soltanto a un livello di base. Così abbiamo cercato di formulare un codice che fosse chiaro per tutti e che aiutasse i fotografi con delle linee guida: sono loro i primi a essere frustrati di questa poca chiarezza». Le violazioni continuano a esistere. Lo stesso Korteweg fa cenno al recentissimo caso di Datta, per quanto slegato al premio di quest’anno.
Rimane da chiedersi: insieme al moltiplicarsi di casi di manipolazione, oltre al dibattito, è cresciuta anche una reale consapevolezza in proposito? «Credo i casi siano aumentati, ma anche che oggi sia più facile scovarli e parlarne – risponde –. Ciascuno di noi può esprimere un’opinione sui social media: sul mio wall di Facebook ho visto tantissimi commentare l’accaduto e ho percepito nei confronti di Datta una sorta di rabbia, come a dire “Basta, non scherziamo con la nostra professione, non possiamo più fare una cosa del genere, è così ovvio”. Lui si è scusato, ma ormai il danno era fatto. L’ennesimo colpo a fotogiornalisti onesti». Secondo Kourteweg, insomma, il dibattito è sempre più intenso e ha a che fare coi casi più frequenti, ma anche col fatto che in generale è sempre più facile dire la propria.
«C’è un momento in cui le persone raggiungono il limite e ad aver la meglio è la rabbia. C’è ancora un sacco di lavoro da fare e spero che la nostra organizzazione sarà in grado di farlo». Il primo pensiero, dunque, per chiudere il cerchio aperto in questo articolo, è per le persone, i consumatori di notizie, che hanno bisogno ogni più che mai di potersi fidare. «Se smettiamo di fidarci di quello che vediamo, dove sta il valore dei fotografi, dei giornalisti, dei fotogiornalisti?».
World Press Photo 17. Fotografia e giornalismo, Galleria Franca Sozzani, fino all’11 giugno 2017
Immagine di copertina: Tomas Munita, per The New York Times, Membri dell’ Esercito Juvenil del Trabajo all’alba attendono lungo la strada per Santiago de Cuba il feretro di Fidel Castro, 3 dicembre 2016. Vita quotidiana – Primo Premio, Storie