Resistere da anfibi nella memoria del tempo: Wu Ming 1 e “Gli uomini pesce”.

In Letteratura

Un romanzo sulla geografia umana di un luogo che sperimenta, nel tempo, diverse forme di lontananza. Nella terra tra la Bassa Ferrarese e il Delta del Po, spazio anfibio e sofferente, le tre vite di un uomo ribelle e indecifrabile, il cui segreto deflagra e viene composto soltanto dopo la sua morte. Fughe criminali e stragi dimenticate, bonifiche e movimenti di Resistenza, simbolismi e ricerca del bene, amori e non detti: tutto si snoda nella siccità che fa risalire le acque del mare, mentre sotto traccia il mito dell’uomo-pesce risale dagli argini e agita memorie tenute occultate.

Se la forma scompare la sua radice è eterna, dice un verso del poeta persiano Rumi che accoglie il visitatore nel giardino del Museo Guggenheim a Venezia.
Ma in che modo quella radice, che pure persiste, può continuare ad agire sul presente?
Viene da chiederselo, nel momento in cui si comincia a seguire, all’indietro, la storia di Ilario, asse portante sul quale sono cucite le vicende del nuovo romanzo di Wu Ming 1, Gli uomini pesce (pubblicato da Einaudi).

Perché Ilario Nevi (partigiano, documentarista e scultore, intellettuale di calibro europeo) ha dalla sua una particolare capacità di ingombrare e occupare le menti: tanto in vita, quanto dopo la sua banale, banalissima morte. Se ne rende conto la nipote prediletta, Antonia, che si trova tra le mani una eredità insospettabile, che la porta a scoprire una serie di faccende che non quadrano: così comincia ad indagare – e noi, dietro a lei. Perché se una cosa è certa della produzione del collettivo Wu Ming, (anche quando si manifesta, come in questo caso, in versione scrittoria solista), è che sa perfettamente il fatto suo nella gestione del ritmo, e nella stratigrafia delle vicende.
E questa capacità è vitale per tenere insieme un romanzo che funziona a scatole cinesi, complesso ed estremamente ricco di temi, che mette insieme invenzione Storia e attualità, con l’effetto di sembrare strutturato su una piramide di domande che, attraversando il tempo, inanellano piani temporali diversi.

Siamo dunque nel 2022, quando Ilario Nevi muore e il commiato richiama faccia a faccia i pezzi sparsi che sono stati nella sua vita.
Da una parte la famiglia (con le sue ritorsioni e i suoi silenzi), dall’altra la piccola comunità della Bassa polesana (precipitata in una secca climatica che rivela l’abbrutimento del luogo e il suo abbandono), dall’altra ancora gli sparuti sopravvissuti dell’Anpi (ammaccati dal tempo e dalla discordia).

È un momento che affaccia su una faglia: il lockdown ha spaccato amicizie, vite, comunità, fratellanze. La polarizzazione degli interventi sui social è soltanto l’estrema emersione di una spaccatura che il ritorno in presenza non basta da solo a curare – si intravvedono i danni secondari del distanziamento sociale, i traumi, i disassamenti, le paure, le opposte fazioni, gli sragionamenti.
Antonia, che è insegnante universitaria, presenta tutti i sintomi della fatica sociale appena attraversata:

“Se il 2019 era stato incoraggiante, il 2020 era stato angosciante. Il lockdown mi aveva avvilita. Il coprifuoco mi aveva atterrita. Gli scazzi e le scomuniche incrociate mi avevano stordita. La didattica a distanza mi aveva sfinita”.

E Ilario, durante il distanziamento, dal suo isolamento era riuscito a farsi numerosi nemici per le parole scritte in rete.
Mai stato morbido, del resto; soprattutto per la volontà di far sentire la sua voce nel raccontare il luogo in cui è sempre tornato a vivere: il Delta del Po.
Questo (insieme al fatto che Gli uomini pesce è forse tra i primi romanzi che tentato la via di una storicizzazione della pandemia, e delle sue conseguenze pervasive e più deteriori) è un altro degli argomenti forti del libro: che si propone di mettere in fila un ragionamento sul tema della periferia del territorio italiano, intesa come luogo che, non pensato, slitta irrimediabilmente dentro la lontananza, lo sfruttamento, la depressione. Uno spazio che diventa inconoscibile, selvaggio in un modo nuovo: dopo lo spopolamento degli anni Cinquanta, i borghi abbandonati diventano zone d’ombra in cui la violenza e l’abuso, quando accadono, lo fanno indisturbati, poiché in un reticolo di case sparse non c’è neppure più nessuno che possa sentire gridare (come nel caso della lunga fuga criminale di Igor, materiale dell’attualità utilizzato nel romanzo come paradigma).

Eppure, la Bassa Ferrarese, il Po, la pianura tra Rovigo e le Valli di Comacchio sono state, negli anni Sessanta e Settanta, l’epicentro e il nucleo di una prima generazione di lotta ecologica, quando a ragionare di biodiversità e di sfruttamento industriale erano le teste dei Cederna e dei Bassani, che postulavano per il Polesine (teatro di una questione meridionale del nordest) soluzioni di salvaguardia di lunghe vedute, e non di soli interventi a effetto immediato.

“Nel Delta il quaranta per cento della popolazione era analfabeta. Dodici bambini su cento morivano prima di compiere cinque anni. Bambini e adulti crepavano di stenti, di malaria, di tifo. Nei paesi non c’era l’acqua corrente”.

Ma sono gli anni del boom, della rincorsa economica, del cemento, della speculazione immobiliare: tutta l’Italia esige il suo pezzo di progresso, e, Delta o no, livello del mare o meno, c’è fame di cambiamento, di lidi, di corsa all’edilizia.
Andando in giro per la pianura riarsa, guardando la spaventosa secca del Po, Anita ritrova le tracce e i motivi del pensiero di Ilario: ma cos’è, in fondo, un luogo abbandonato, se non – anche – un luogo nel quale possono ancora permettersi di sopravvivere segreti e leggende che la contemporaneità polverizza?

La guerra era di nuovo sui giornali, il fiume sempre piú in magra ne restituiva le vestigia. Era riapparso un semicingolato tedesco. Era riemersa una chiatta di cinquanta metri. Erano tornati alla luce ponti di barche bombardati dagli inglesi. Alla fine di luglio, la secca aveva esposto le rovine del vecchio ponte tra Ostiglia e Revere. Ilario non aveva potuto vederlo. Ormai se n’era andato.

Così, nel lascito dello zio, che uno strano notaio le illustra, Anita incontra i frammenti della leggenda dell’homo bracteatus: da dove viene, dove si trova, esiste davvero, che ruolo ha mai avuto Ilario nella vicenda dell’uomo pesce sono domande dentro le quali la donna si inoltra tra testimoni puntigliosi, articoli reticenti, dicerie, soffiate, mezze verità, apparizioni che rimandano al tempo della Seconda Guerra Mondiale.

Bisogna però sempre stare attenti, quando si ha a che fare con un mito. Perché il mito, si sa, per quanto sfagliato, conserva intatta una sua verità e ha un suo proprio linguaggio per attraversare le epoche: non scompare mai del tutto, ma persiste; accende la curiosità; riemerge in quello che la terra (anche quando è il letto di un fiume in secca) restituisce al presente.
Serve così, ad Anita, risalire di settant’anni per incontrare il vero, profondo segreto che Ilario le ha consegnato: un segreto che ha avuto un costo enorme.

Ecco allora che il terzo piano temporale di questo romanzo rivela un altro tema portante, ovvero quello della memoria, della necessità di tenere a mente la catena delle cause e degli effetti (chi fa che? chi ha fatto cosa?). Tanto più quando è una catena che parla di orrori e ferocia, spalancata sul Ferrarese dal fascismo e dal nazismo. Tanto più quando è una catena che porta a una serie di domande: i perché del movimento partigiano. I come.
Se si perde la memoria, sembra dirci questo romanzo, si perde il senso della catena logica: si perdono i nomi (Bassani, Viganò, Bacchelli, Meluschi, Alda Costa…), si perde il contesto.

Tra alchimia, ipnosi, simbolismo, riemersioni, omaggi a Il pendolo di Foucault e riflessioni che fanno ripensare alla Yourcenar de L’opera al nero, quella de Gli uomini pesce è una storia di restituzione e di libertà. Nel nome di un – estremo – amore.

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