Il racconto della malattia di un privato cittadino israeliano si lega alla riflessione sul valore collettivo che la memoria riveste per un popolo. E se fosse proprio nel dimenticare la possibilità di una rinascita?
“Chissà cosa succederà quando non sarò più in grado di leggere.
Sarò io a leggere per te. E se non capirò quello che leggi?
Te lo spiegherò.
E se continuerò a non capire?
Allora faremo l’amore. Questo lo capisci sempre.”
Con il suo tredicesimo romanzo, Abraham B. Yehoshua, l’ottantaduenne accademico israeliano, compie un’impresa semplicemente straordinaria, condensando, in una vicenda dai toni intimi e famigliari, la storia pubblica del Medio Oriente.
Ne Il tunnel (Einaudi), le sofferenze di un privato cittadino israeliano che si trova a fronteggiare una malattia destinata a condurlo verso la completa compromissione della lucidità si intrecciano, in un garbuglio tutt’altro che limpido, con il dramma del conflitto medio-orientale. Seppur non ci sia niente di più privato della sofferenza e della malattia, con il suo romanzo Abraham B. Yehoshua intesse una rete narrativa capace di tenere insieme il lamento privato di Zvi Luria sullo sfondo di quello collettivo del popolo israeliano e di quello palestinese.
L’ultimo romanzo di Yehoshua, autore fra gli altri di Un divorzio tardivo, L’amante e Il signor Mani, traccia un quadro completo della malattia, dalle difficoltà quotidiane alle problematiche esistenziali.
Un tema difficile, che Yehoshua affronta con coraggio, onestà e la giusta dose di ironia. Dipinge una storia in cui il realismo preciso e dettagliato delle descrizioni sfuma spesso in racconti dai toni fantastici, nati dalla mente del suo “confuso” protagonista. Il libro è un viaggio nella mente di Zvi Luria, un pensionato che ha passato da poco i settanta ed è stato per tutta la vita un ingegnere stradale, a cui viene diagnosticato, a inizio romanzo, un principio di demenza.
Il percorso della malattia, irregolare e mutevole, ha una sola destinazione: l’oblio.
Dal momento della diagnosi, le perdite di memoria dell’ex ingegnere entrano nella narrazione cambiandone i toni, i confini fra realtà e immaginazione si fanno incerti e fumosi.
Dal primo capitolo, il protagonista e la moglie Dina lottano contro l’oblio delle memorie individuali e famigliari che definiscono l’identità di Zvi. Dal codice dell’antifurto dell’auto che si tatuerà sul braccio, passando per la confusione su quale bambino sia in effetti suo nipote, Zvi finirà per dimenticarsi il proprio indirizzo e, in breve, perfino il proprio nome.
Prima i nomi, poi i luoghi, prima gli altri e poi sé stesso. A poco a poco, più di settant’anni di vita annegano nel mare della dimenticanza. La ricerca dei nomi diventa una questione chiave nel romanzo, per Zvi sono le parole che tengono saldo il ricordo della persona, i veri custodi dell’identità. La perdita della memoria, fonte di sofferenza per Zvi, è, al tempo stesso, ragione delle numerose esplosioni ironiche del romanzo.
Le sviste, che da piccole e nascoste si fanno sempre più marcate, portano il lettore in contatto con i percorsi insoliti di una mente nebulosa, divertono e commuovono.
Dall’irreversibile declino, si salva solo il matrimonio. Fra le pagine del romanzo, viene fuori un affresco molto più che lusinghiero dell’unione fra coniugi non più giovanissimi, fatto di quotidiane tenerezze, intrise di dignità e di profondo rispetto reciproco.
Come in altri romanzi di Yehoshua, la prospettiva femminile è centrale, ed è impersonata questa volta da Dina, primario di pediatria. Dina è un faro nell’oscurità per Zvi, lo tiene per mano e lo porta con sé. Con leggerezza e senza lamenti, i due restano in attesa dell’impatto graduale che la malattia avrà sulle loro vite. I dialoghi fra Dina e Zvi sono qualcosa di meraviglioso, ironico e intenso: sono lenti e mai noiosi. Con coraggio e consapevolezza, Dina tenta di risarcire l’uomo che ama della perdita che sta subendo.
Come Yehoshua confessa in un’intervista rilasciata a Vanity Fair lo scorso dicembre, la moglie di Zvi, dolce e accudente, somiglia alla sua, venuta a mancare nel mezzo della scrittura de Il tunnel.
Ed è proprio Dina a dare inizio alla vicenda narrata, suggerendo al marito di proporsi come aiutante volontario del giovane ingegnere Assael Maimoni, impegnato nella costruzione di un tunnel sotto una piccola collina nel deserto. L’ideazione e la realizzazione del tunnel, tengono impegnato Zvi nel suo ultimo periodo di lucidità.
È così che la sventura personale di Zvi Luria incontra la tragedia storica del popolo palestinese e di quello ebraico. Il tunnel che stanno progettando darà rifugio a una famiglia palestinese che si nasconde nella zona.
Il racconto della malattia di un privato cittadino israeliano si lega così a doppio filo con un’altra riflessione sul valore collettivo che la memoria riveste per un popolo. Se per il singolo la perdita di memoria è fonte di disorientamento e di crisi, per un popolo può essere fonte di cooperazione e solidarietà. L’attaccarsi di Zvi a ogni ricordo si ribalta specularmente nella riflessione sui danni che può provocare l’eccessivo legame con la storia. Ragionando per assurdo, ciò che è capitato al protagonista del romanzo potrebbe aiutare il popolo ebraico e quello palestinese, rivolti verso un passato di rivalità che dovrebbero, secondo l’autore, essere semplicemente dimenticate.
È in questa implicita considerazione, mai svelata dall’autore, che il romanzo approfondisce e ribalta in positivo il significato della perdita di memoria di Zvi. La malattia del protagonista è oltremodo simbolica, il racconto della costruzione del tunnel è una metafora plurisignificante. Da una parte, una lettura individuale che getta uno sguardo sulla vita umana e sulle sue tragicomiche contraddizioni, dall’altra, una lettura storica che svela la tragedia di due popoli in lotta, vicini e, al tempo stesso, lontanissimi.
Il progressivo sgretolarsi della personalità dell’ingegner Luria si intreccia con la controversa identità di Israele in una riflessione che viene tacitamente catturata dentro la narrazione.