Storia di un cantautore emergente che cerca di mettere insieme, e ci riesce bene, il rock, il blues e le sonorità più antiche e meno scontate della sua terra, la Sicilia
Sergio Zafarana, sul palco, è per tutti Zafarà. Originario di Caltanissetta, canta e suona da quasi vent’anni, prima come voce dei Trifase, e recentemente come solista. Il suo repertorio si riallaccia alla grande tradizione cantautorale italiana, ma insaporito con pezzi folk, riferimenti, da Gaber a Capossela, sperimentazioni elettroniche inframmezzate da un sound più intimista e acustico. A Milano ha suonato al Colibrì, il giorno in cui ha debuttato il suo ultimo disco, Balordo: «Abbiamo avuto un intoppo con la grafica» dice «così mi sono auto-piratato e stasera vi lascio alcune copie masterizzate del mio ultimo disco…»
Zafarà è un artista emergente, ma non ha nemmeno un briciolo della spocchia dei suoi colleghi Youtuber. Nei suoi testi racconta di storie, debolezze e manie di un’umanità piena di contrasti. Balordo è in fondo la sintesi di una generazione costretta a vivere nel momento, ad adattarsi a un modo di vivere strampalato e precario. L’instabilità di una generazione che è la sua forza e debolezza insieme. La canzone dei pazzi è un viaggio sociologico, o come lo chiama lui, “un esperimento scientifico”. Uno zoom su una generazione a vànvira e senza futuro.
Al Colibrì sul palco con lui c’era Alessio Torregrossa al basso, «il mio bassista di riferimento per la Lombardia». Sì, perché Zafarà si appoggia a diversi collaboratori in giro per l’Italia a seconda delle zone in cui suona, e della disponibilità di ciascuno. «Di questi tempi, i ragazzi della mia età fanno uno, due, a volte anche tre lavori per farcela, e con gli impegni personali e le spese da sostenere, mi sono ingegnato così. E’ quasi un Airbnb della musica, per capirci». Nonostante il tributo evidente ai cantautori italiani degli anni ’90 e gli omaggi a Morgan e de André – di quest’ultimo ripercorre La ballata dell’amore cieco e Don Raffaè con un sound delle chitarre molto più elettrico e accelerato -, Zafarà lascia trapelare nella sua musica i profumi e le atmosfere siciliane a cui è molto legato.
A un certo punto durante il concerto, attacca, completamente fuori scaletta, un pezzo di Rosa Balistreri, e rivolgendosi al bassista, gli dice: «se non la sai, vienimi dietro…». E così rielabora la famosa Cu ti lu dissi, restituita al grande pubblico anche da Carmen Consoli nel tour Elettra del 2010. Il rimaneggiamento di Zafarà, però, ha molto meno del «canto strozzato, drammatico, angosciato» di Rosa, come lo definiva il poeta Ignazio Buttitta di cui la Balistreri intonò molti dei poemetti. La sua versione è gelida, precisa, quasi scollegata dal tema della canzone, molto più freddamente maschile. Il tono roco e profondo le regalano venature da blues bar.
Dei suoi riferimenti alla tradizione siciliana, dice: «mi rifaccio molto ai suoni e alle atmosfere della mia terra, ma non per un facile ricorso ai sicilianismi, che sembra andare anche un po’ di moda, quanto per la capacità della lingua siciliana di raccontare storie, in modo espressivo e autentico. Cantare Rosa mi viene spontaneo. Che poi, lo sai, Rosa non è solo una cantautrice, è una cantastorie. Si faceva portavoce di una comunità e mescolava, ai pezzi che componeva, filastrocche, canti popolari e cunti della tradizione folkloristica siciliana».
Ed è quello che fa anche Zafarà quando, per esempio, intona un pezzo ambientato nelle zolfatare intorno a Caltanissetta, dove, più di un secolo fa, si estraeva zolfo che veniva poi esportato in tutta Europa. Nel suo repertorio ci sono quindi pochi, pochissimi, pezzi scritti in siciliano, come Sutta Terra, la preghiera di un padre per un caruso delle miniere, uno di quei ragazzini di 7-8 anni che, potendo muoversi agilmente tra i vicoli delle cave, facevano gola ai capi partita e venivano letteralmente venduti da quelle famiglie che non potevano mantenerli.
Ma torniamo al nuovo album, Balordo. Tra gli undici pezzi rock e un po’ blues, c’è anche Vladimiro è sotto shock (uno dei singoli vedetta di questo album). Zafarà confessa: «è una storia vera, riguarda un fatto successo a un amico e senza entrare troppo nei dettagli per non fare figure di m…, racconta del rimorso». Nelle sue storie, sfocate ma vivaci, lato onirico e vita reale si confondono. Perché Sergio ha “sempre visioni da ubriacone, o da insonne”.