Zanele Muholi e la consapevolezza dello sguardo bianco

In Arte

Se non avete mai sentito parlare di Zanele Muholi, è il momento di prendere qualche minuto per scoprire le sue magnifiche fotografie; e quello che significano.

“L’arte non ha bisogno di parole per essere spiegata. L’arte nasce per spiegare”.

Con queste lapidarie parole Stefano Zecchi, allora professore ordinario di estetica all’Università Statale di Milano, chiuse la lezione inaugurale del suo corso lasciano in ogni studente, ansioso di conquistare il mondo con la forza delle proprie parole, un misto di sorpresa, ammirazione e sgomento.

Nessun artista incarna questo concetto più di Zanele Muholi, che in questo periodo di fermento sociale e tensione culturale che ha seguito la morte di George Floyd sta tornando all’attenzione dei media per la forza comunicativa che possiedono le sue fotografie.

Nata a Umlazi, Sudafrica, nel 1972, Zanele è prima un’attivista che una fotografa. Sia in senso cronologico che in senso ontologico. Il suo rapporto con la fotografia inizia infatti piuttosto tardivamente, quando già aveva fondato il FEW (Forum of the Empowerment of Women), un’organizzazione che si batte per i diritti delle donne omosessuali in Sudafrica.

L’arte non è per lei un mezzo fine a se stesso, ma un potente ed efficace mezzo di comunicazione per le sue idee e le sue battaglie.

Si definisce “attivista visuale”, e in un’intervista rilasciata alla biennale di Venezia del 2019, che ospitava alcuni suoi lavori all’interno dell’Arsenale, si dichiarava “dispiaciuta di essere intervistata per la mia arte e non per il mio attivismo”.

Non è un’artista che ha saputo cogliere la tensione sociale del suo tempo per trasmetterla nelle sue opere, ma un’attivista che ha compreso come l’arte sia uno strumento di un’immediatezza e una facilità di trasmissione senza pari. Oltre a tutto ciò c’è da considerare un dettaglio di fondamentale importanza: Zanele Muholi ha un talento fuori dal comune. Ha frequentato il suo primo corso di fotografia a Johannesburg nel 2003, e in meno di vent’anni di carriera ha già raggiunto le massime vette cui un fotografo possa ambire: ha esposto a Documenta (2012), alla Biennale di Venezia (2019), e le sue fotografie sono esposte alla Tate Modern di Londra, all’Art Institute di Chicago, al Moma di New York.

Le sue fotografie hanno un qualcosa di unico. Utilizza la tecnica dell’impressione su sali d’argento, un processo sviluppato negli anni Ottanta dell’800 che consiste nel creare un’emulsione gelatinosa a base di bromuro d’argento che viene impressionata da una fonte luminosa.

Questo ritorno alle origini risulta in delle immagini dal fortissimo contrasto cromatico tra i bianchi e i neri. E il contrasto tra questi due colori all’interno della foto vuole ricalcare quello che si trova all’esterno di essa, in un territorio che non ha ancora superato del tutto le discriminazioni dell’Apartheid.

Zanele lavora quasi esclusivamente attraverso i ritratti; non fotografa però scene di violenza o discriminazione, ma di quotidianità, dando spazio a quelle persone che sono state e continuano ad essere escluse dalla narrazione dell’arte e della storia. Il suo intento è riscrivere la Storia includendo coloro che in epoca coloniale prima e suprematista poi ne sono stati esclusi.

Il suo obiettivo è la creazione di una herstory (in contrapposizione alla “his-story”, storia al femminile in contrapposizione alla storia dell’uomo), che racconti attraverso i loro volti le vite di coloro che sono stati dimenticati.

Il suo è un lavoro di resistenza, persistenza, presenza.

Tra le sue fonti di ispirazione cita spesso Gordon Parks, regista e attivista politico americano che utilizzava la macchina da presa come “la mia arma prediletta” per combattere le disuguaglianze sociali.

Basta passare davanti a una fotografia di Muholi per esserne magneticamente attratto e costretto a fermarcisi davanti. I ritratti sono sempre frontali, su sfondo nero, e lo sguardo penetrante dei soggetti scava l’animo dello spettatore. Si tratta di un’inversione di rotta del ritratto fotografico.

L’artista infrange la regola aurea del ritratto nobiliare, in cui il soggetto guardava un punto distante per poter mantenere il proprio contegno e la propria intoccabilità e sfida lo spettatore in un duello rusticano in cui perde colui che distoglie lo sguardo per primo. Il che significa che lo spettatore perde sempre.

Non è il visitatore a osservare l’opera e a giudicarla, ma l’opera che fissa sprezzante lo spettatore e lo costringe a sentirsi osservato.

In questo periodo di risveglio delle coscienze, in cui ancora oggi le disuguaglianze sociali derivate dall’appartenere a una minoranza permeano la nostra società e chi vi appartiene urla con tutta la sua forza di essere osservato e riconosciuto, le fotografie di Muholi sono diventate virali sui social e sono state assunte da molti attivisti come simboli di rappresentazione della loro rabbia sociale.

Tali immagini non potrebbero essere più appropriate.

Vedere un’esibizione di Zanele è un’esperienza antropologica. Confrontare quegli sguardi significa comprendere come essi si sentano, e diviene subito chiaro perché l’artista si definisca un’attivista visuale. Quel senso di colpa morale che si prova posizionandosi dinanzi ai loro volti vale quanto un comizio, o una manifestazione, e la struggente bellezza di tali immagini ce le rende incancellabili dalla nostra memoria.

Forse il discorso inaugurale del professor Zecchi aveva un intento provocatorio, quello di smorzare la sicurezza di un gruppo di giovani studenti per far loro capire che l’arte ha qualcosa di mistico e dirompente che vale più delle parole che cercano di cogliere tale forza segreta.

Non sono sicuro che la funzione primaria dell’arte sia quella di esemplificare un concetto. Certamente quella di Zanele Muholi lo fa. E ci riesce benissimo.

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