Fondazione Prada presenta nella sede di Milano il progetto espositivo “Post Zang Tumb Tuuum. Art Life Politics: Italia 1918-1943”. Tra metodo scientifico e sospensione di giudizio, la mostra curata da Germano Celant esplora il sistema dell’arte e della cultura in Italia tra le due guerre mondiali, partendo dalla ricerca e dallo studio di documenti e fotografie storiche che rivelano il contesto spaziale, temporale, sociale e politico in cui le opere d’arte sono state create, messe in scena, nonché vissute e interpretate dal pubblico dell’epoca.
Già parlando dell’ultima Biennale e del suo spericolato contorno veneziano abbiamo avuto modo di accennare all’inquietante sensazione di restaurazione estetica che da qualche tempo aleggia nel magmatico mondo dell’arte contemporanea, dal padiglione della Germania col suo piglio nazi-punk alla fascinazione tardo classicista di Damien Hirst.
Quello stesso vago sentore di propaganda d’altri tempi non era assente neppure nelle scelte architettoniche e nella sovrapposizione tra classico e contemporaneo della mostra d’apertura della Fondazione Prada, che oggi torna a dar prova muscolare del suo potere socio-economico con la poderosa mostra Zang Tumb Tuuum. Art Life Politics: Italia 1918-1943, curata da Germano Celant. Una mostra oggettivamente straordinaria, con più di 600 opere di oltre 100 artisti e un totale di 800 documenti, in un allestimento scenografico e coinvolgente che mette in discussione, nelle intenzioni del curatore, l’estetica ormai superata dell’allestimento white cube.
Quello che però non viene messo in discussione, e che trova quindi aperta la strada comunicativa, è la voragine di senso delle opere in mostra: senso ancora vivo socialmente, in un’epoca come questa che, oggi come allora, è sul limes della crisi dello stato liberale, piena di tentativi di restaurazione, negazionismi e ritorni al passato nel senso peggiore del termine. Il percorso è progettato con maestria, punteggiato dalle riproduzioni in scala reale di ambienti come collezioni, studi d’artista, manifestazioni e rassegne dell’epoca. Possiamo così vedere le opere inserite in un simulacro in bianco e nero, sgranato ed effimero: esercizio di stile interessante ma che ripropone la situazione originaria quanto un barattolo di sabbia può riproporre il calore del sole e il profumo del mare in una spiaggia.
Nel progetto di Prada è però evidente la prova di forza. La grandiosità della mostra, l’enorme quantità di materiale, le gigantesche proiezioni, i suoni e le luci, l’eco dei Cinegiornali Luce. Tutto è ipertrofico, compresa la qualità delle opere, ma anche tutto è lasciato libero di esprimere quel contenuto che, appunto, è ben lungi dall’essere esaurito. Il feroce sarcasmo di Sironi nella vignetta contro Matteotti, l’esaltazione dell’era fascista, la potenza propagandistica intrinseca all’appoggio fascista all’arte del suo tempo. Ieri come oggi, brividi sulla schiena. Ma anche pelle d’oca, dipende. A metà percorso si prova un senso di orgoglio italico che tende a sollevare il braccio destro irrigidito, salvo riprendersi davanti al verbale d’arresto di Aligi Sassu o alla ferale notizia della morte di Antonio Gramsci. Nessuno è risparmiato. Neppure quel Bruno Munari che sempre negò, e che invece si dilettava in splendidi, italicissimi collages a uso e consumo del regime.
I documenti in mostra, secondo Celant, “sintetizzano la funzione comunicativa dell’opera d’arte” offrendo “una storia reale, fuori dalla trattazione teorica dell’artefatto.” Ma questo che viene presentato come un punto di forza del progetto è proprio il cardine dell’ambiguità, a tratti opprimente, che si respira in mostra. Come dice lo stesso curatore, “l’artefatto, inserito nuovamente nel flusso caotico dell’esporre, ritorna”, se mai ha smesso di esserlo, “una materia viva, una costruzione stratificata di significati e possibili interpretazioni”. Ma allora, è possibile, trattando di una materia viva come l’ideologia – che ancora oggi aleggia in versione nostalgica o sotto maschere rinnovate – stare “fuori” dalla trattazione, non tanto dell’artefatto ma del suo contesto? È possibile storicizzare definitivamente e musealizzare attraverso accattivanti trucchi scenografici quello che è ancora pericolosamente vivo nel presente? Possiamo leggere il Mein Kampf senza note e commenti, come leggessimo L’arte della guerra di Sun Tzu o le gesta di Attila? Se l’esercizio della critica vuole essere assenza di critica, evidentemente c’è qualcosa che non va.
La mostra invece fa proprio questo: sovrappone mirabilmente più livelli di lettura e di riflessione – dalla qualità delle opere alla scelta dell’allestimento all’approccio scientifico-storiografico – illuminando talmente tanto la visione d’insieme da far passare inosservata la lacuna del non aver considerato il contesto in cui tutto ciò si svolge, cent’anni dopo i fatti raccontati, in un nuovo millenio parecchio in confusione.
Ma se vogliamo tornare a quell’artefatto, lasciato al suo destino dalla presunta epoké curatoriale, dobbiamo ribadire con forza l’impareggiata potenza rivoluzionaria di molti degli artisti in mostra, primi fra tutti i futuristi, che proprio da quel clamore ideologico sono stati seppelliti, con molta malafede dei benpensanti e di certi comunisti col portafoglio a destra. Questo è il doppio salto mortale: se da una parte si prendono le opere e le si lascia libere di esprimere la loro contingenza storico politica, come accade in questa mostra, le si rimette nella condizione di partenza che già una volta ne ha decretato lo stigma, rischiando che ciò accada nuovamente allontanandole ancora di più dallo sguardo distaccato e scientifico che meriterebbero.
Riproporre nuda e cruda la verve retorica che ammantava quelle opere nel momento e nel contesto in cui nacquero rischia, all’opposto delle intenzioni, di far dimenticare ancora una volta che il valore di un artista e della sua opera è intrinseco e autonomo, al di là e ben oltre le contingenze, sia pur imprescindibili, della sua vita e della sua epoca.
Sironi era fascista, convinto. Ma era anche un grande artista. Duchamp retrodatò il suo Nudo che scende le scale per far credere d’averlo fatto prima di Boccioni, e a tutti è andata bene così. Balla, fascista, fu “derubato” delle sue geometrie dai simpatici coniugi Delaunay. Sant’Elia era un giovane, meraviglioso visionario. Morto in una guerra in cui credeva. E via discorrendo. Ma, al di là dell’ideologia, a muovere l’ardore di quei giovani era prima di tutto la voglia di cambiare, di rinnovare, di immaginare un mondo nuovo! Stacchiamoci, allora, una volta per tutte, dalla retorica da una parte e dall’indifferenza dall’altra, per non rischiare più di fare il gioco di chi ci vuole, ancora e sempre, passivamente conformisti.
Tutte le immagini: Exhibition view of “Post Zang Tumb Tuuum. Art Life Politics: Italia 1918-1943, photo Delfino Sisto Legnani and Marco Cappelletti. Courtesy Fondazione Prada.